EST

Compulsando i diari dei viaggiatori, nella programmazione della nuova meta, mi è rimasto impresso il commento di una ragazza che, in termini esperienziali, affermava che la Romania non le aveva lasciato nulla. Un commento netto, algido, prossimo all’indifferenza.

Sarà la mia passione per i paesi dell’est Europa, la ferita portata a quelle terre dalla spietatezza delle dittature, l’idea di povertà che gli italiani ancora associano alla Romania; fatto sta che quel commento ha stimolato la mia già naturale disposizione a indagare Bucarest.

Se in certe rappresentazioni Bucarest è ancora idealizzata come un luogo tetro, malfamato, mortificato dal regime, sarà colto da stupore impattando una città caotica, dinamica, giovane. Un’evoluzione che trova testimonianza anche nell’arrestata diaspora dei rumeni verso l’Italia.

Sebbene sarebbero da approfondire le condizioni di vita nelle aree rurali, non è blasfemo constatare la crescita e la modernizzazione che Bucarest affronta al pari delle più importanti capitali europee.

Parimenti si dica delle città strette nella cintura dei Carpazi, della regione Transilvana e della calcolata economia attorno a Castelli e leggende che, ben confezionati nell’involucro turistico, rappresentano una proficua risorsa.

E’ in questo quadro irrinunciabile la tappa ai castelli di Peleș e Bran: Peleș è un castello moderno, neorinascimentale, espressione dello sfarzo delle dinastie europee; Bran, celebre per la leggenda del Conte Dracula, è una struttura antica, inerpicata su una rupe e dalle chiare funzioni difensive.

Funzioni difensive che, facendo rientro a Bucarest, ha forse trascurato – nell’ultimo periodo del regime – il suo cittadino più illustre, Nicolae Ceaușescu, ultimo Presidente della Repubblica Socialista di Romania, condannato e fucilato con la moglie Elena a conclusione della rivoluzione rumena del 1989.

Se da un lato Ceaușescu contribuì alla modernizzazione urbanistica e industriale della Romania, attuando un estremo programma di trasferimento dei contadini dalla campagna alla città e demolendo interi quartieri storici; dall’altro non è marginale che ridusse alla fame il suo paese.

La Casa Poporului, attuale sede del Parlamento, è la più fedele testimonianza delle contraddizioni che hanno attraversato Bucarest e la Romania comunista. Una struttura mastodontica, pesante, che ogni anno sprofonda di 6 millimetri, nella quale si sedimenta il megalomane culto del governante.

Una casa in tutti i sensi del popolo, ci spiega la guida, essendo stata realizzata – per bilanciare il costo dei pregiati materiali impiegati – senza mai retribuire le maestranze.

Mentre la vita dei cittadini romeni si trasformava in una quotidiana lotta per la sopravvivenza, gli agi presidenziali trovavano rinnovato conforto nel Palazzo Primaverii, la residenza dei Ceausescu, compendio dell’esuberanza e della confusione stilistica del dittatore.

Solennità nostalgicamente evocate dal nostro tassista e fiorite nell’insana identificazione della nazione con l’uomo forte.

Un uomo che non scrive per tutto il suo popolo non è un poeta.
Nicolae Ceaușescu


Classificazione: 1 su 5.
  1. Mia nonna diceva: perché bisticciare per un pallone, non possono dargliene uno a ciuscuno?

  2. Ogni volta che mi sento. In colpa per.unz menzogna.

  3. Un partigiano come Presidente, forse il popolo non se l’è meritato…ma nemmeno Toto Cuttugno.

La Putin Doll

La Putin Doll è una linea di bambole tutte simili, interscambiabili negli abiti e nei ruoli, commercializzata da Mattel Corporation  e ideata sul modello di una partigiana filorussa. Con accessori vendibili separatamente, è – secondo le contingenze – interscambiale con tratti identitari della politica filopalestinese, filoiraniana, filosiriana. Per venire incontro alla clientela più esigente, non ha…

Rutti

Abituati come siamo a esaltare l’autoreferenza di frettolosi interpreti digitali, abbiamo a tal punto smarrito la misura dell’arte da licenziare come stolto egocentrico uno dei più abili e corrosivi autori presenti sulla scena italiana. Autore di composizioni sopraffine e di scazzi memorabili, ha da solo nobilitato l’ultimo concerto del Primo maggio lanciando strali contro la…

Sabato antifascista

All’apparenza sembrava un sabato qualunque, di quelli che già profumano di domenica, di sveglie ritardate, di pigrizia pomeridiana. Ma non per tutti. Per Benito era il primo sabato antifascista. Così, dopo essersi lui medesimo dichiarato antifascista, Benito, alleggerito dalle funzioni corporali, si recò in cucina, accese i fornelli e avviò la preparazione del caffè dosato…

ambiente Calcio comune Corona virus Costume Di Maio Elezioni Elezioni comunali europa eventi Facebook Giorgia Meloni giornalismo Giuseppe Conte Governo Governo Conte Guerra Inter Internet Intervista isis italia Lega M5S Matteo Salvini Migranti morte Movimento Cinque Stelle musica paesi papa Francesco Parodia PD politica Razzismo Russia Salvini Santa Teresa Gallura Sardegna Serie A società Turismo Ucraina Viaggio voto

Il tacco Bianco

C’è qualcosa di calviniano nelle città della Puglia, nel bianco lucente che resiste al tempo e alle contaminazioni.

E’ bianca Altamura, terra di frontiera tra Puglia e Basilicata, teatro di una vivace contesa con la città di Matera sull’arte del pane.

E’ bianca Ostuni, dove dimesse insegne novembrine richiamano la memoria di un’estate felice.

E’ bianca Cisternino, che dal belvedere accoglie gentile i tramonti della Valle d’Itria.

E’ bianca Alberobello, con i tipici trulli e le  meravigliate espressioni dei visitatori.

E’ bianca Locorotondo, la cui sinuosità disvela le sue origini toponomastiche.

E’ bianca Martina Franca, barocca, labirintica, nella fortunosa nostra occasione allestita per le riprese sulla vita di Giacomo Leopardi.

Prosa che storta si  combina con la locale interpretazione del codice della strada.

E’ bianca Monopoli, che dall’arco basso si immerge nel porto vecchio. Le graziose barche blu, le reti adagiate sul molo, l’anziano cantore in cerca di innamorati, dipingono un ritratto che tale sarebbe se non fosse animato dalla stanca quotidianità.

E’ bianca Polignano a mare, alla quale più che il mare fa da contrasto il dipinto blu di Domenico Modugno, celebrato orgoglio cittadino.

A elevarsi, anche per importanza politica è la citta di Bari, la Bari vecchia in particolare, riscattata alla criminalità e trasformata in nobile attrazione del sud.

Effluvi culinari e di bucato si diffondono tenaci nel reticolo cittadino.

Che facete a pranzo, signo’?” Chiede il passante a una signora impegnata nella vendita e nella preparazione del pranzo. “‘U brodo!” risponde lei, deludendone le aspettative. 

Una testimonianza della veracità barese, della sua anima popolare, che si replica nelle botteghe e nelle banchine portuali,  Nderr La’Lanz, dove si assiste alla pratica dell’arricciatura del polpo.

Un romanticismo truce che si stempera nella più innocua e vivace via delle orecchiette, via dell’arco basso. Porte aperte, ventilatori e banchi espositivi offrono ai passanti l’arte delle matrone baresi.

Autentica  prelibatezza della cucina locale – con la rinomata focaccia, le cime di rapa, le fritture e i celebri  panzerotti -,  la città si rivela golosa per il palato ma letale per i parametri cardiovascolari. Il panzerotto in particolare, involucro delle più grasse conoscenze gastronomiche.

Tu devi mangiarlo stracciatella e pomodori secchi; dopo quello solo il buio sta’!“, mi dice Zazà,  fornaio di Bari vecchia.

C’è infine Matera, la Basilicata, prima pietra del viaggio. Alla rinnovata magia dei luoghi, alla roccia che prende forma e si fa città, si oppone l’indegna aggressione dell’architettura rupestre, bonificata e trasformata fino allo snaturamento.

Dove un tempo sorgevano i ricoveri pastorali, le abitazioni contadine raccontate nella denuncia di Levi, si sviluppano oggi locali eleganti e facoltosi,  a loro modo attrazioni per le visite guidate.

Dove un tempo convogliavano i grabiglioni, incubatori di epidemie e infezioni, sorgono oggi raffinati alloggi, saune e orientamenti vocati alla nuova filosofia alberghiera.

La guida tradisce un certo imbarazzo quando gli chiedo se i proprietari delle strutture riqualificate siano Materani.

Per le umiliazioni del passato, o per l’atavica diffidenza verso le istituzioni, l’impressione è che Matera abbia immolato l’identità sull’altare del benessere. “Matera non è Basilicata“, mi risponde un ragazzo sorpreso dal mio interesse per la sua regione.

Percorsi ispirati più ai passaggi cinematografici e delle celebrità che alla storia lucana, scaltri s’intersecano con il negozio dell’amico, l’artigianato dell’amico, il ristorante dell’amico.

Ma dopo tutto, deposta l’onta della nazione, arroventata la fornace della rinascita, cosa volere di più dalla vita?



Classificazione: 1 su 5.
  1. Mia nonna diceva: perché bisticciare per un pallone, non possono dargliene uno a ciuscuno?

  2. Ogni volta che mi sento. In colpa per.unz menzogna.

  3. Un partigiano come Presidente, forse il popolo non se l’è meritato…ma nemmeno Toto Cuttugno.

EST

Compulsando i diari dei viaggiatori, nella programmazione della nuova meta, mi è rimasto impresso il commento di una ragazza che, in termini esperienziali, affermava che la Romania non le aveva lasciato nulla. Un commento netto, algido, prossimo all’indifferenza. Sarà la mia passione per i paesi dell’est Europa, la ferita portata a quelle terre dalla spietatezza…

Il cane dell’ortolano

Sembrano ispirarsi più alla drammaturgia spagnola che alle sorti della Regione, lacerata da consumate alchimie elettorali, le iniziative che accompagnano la classe politica teresina al voto. Come il cane dell’ortolano, che non mangia né lascia gli altri mangiare, la generosa proposta di nomi e simboli rischia infatti di prosciugare le già aride risorse locali, sottraendo…

Gigi Riva

La storia di Gigi Riva è una storia di calcio in cui il calcio diventa marginale. E’ una storia di gratitudine, di verticalità morale, di passione. Non esiste sardo che, pur non avendo vissuto la sua grandezza sportiva, non lo abbia amato o non abbia almeno un aneddoto da ricordare: la sciarpa di un padre,…

ambiente Calcio comune Corona virus Costume Di Maio Elezioni Elezioni comunali europa eventi Facebook Giorgia Meloni giornalismo Giuseppe Conte Governo Governo Conte Guerra Inter Internet Intervista isis italia Lega M5S Matteo Salvini Migranti morte Movimento Cinque Stelle musica paesi papa Francesco Parodia PD politica Razzismo Russia Salvini Santa Teresa Gallura Sardegna Serie A società Turismo Ucraina Viaggio voto

I tetti di Tallin

La prima caratteristica della città di Tallin, fiabesca capitale baltica, è la sua definizione geografica. La domanda che sentirete rivolgervi annunciando la destinazione estone sarà: “E dov’è?

Abbinando alle nozioni cartografiche e culturali confuse tavole concettuali, per quanto generoso si riveli l’impegno, non sempre è risolutivo.

Tre le parole salvifiche: davanti alla Finlandia. L’Estonia è davanti alla Finlandia.

Poco importa sapere dove si trovi la Finlandia, perché – a differenza dell’Estonia – la Finlandia è famosa. Vuoi per i muschi e licheni, vuoi per l’alce, vuoi per il senso di responsabilità collettiva, sta di fatto che la Finlandia la conoscono tutti. Per chi volesse approfondire, in sommi capi: governanti bone, denti bianchi, diritti civili.

L’incompiuta fama di Tallin, tuttavia, non va letta in chiave strettamente negativa. Ci sono epoche e confini in cui è più rassicurante non essere onorati dalla cronaca. E questo è uno di quelli.

Eppure all’affascinante capitale baltica, la più antica dell’Europa settentrionale, non fanno difetto le attrazioni. Cinta dalle fortificazioni e dai colorati vicoli medievali, sui quali svettano i campanili e i caratteristici tetti aguzzi, la città vecchia si offre vanitosa al visitatore.

A proposito di edifici religiosi, bussola di ogni nostro itinerario, merita una considerazione la Cattedrale luterana di Sant’Olaf, dove – più per educazione che per sentimento religioso – abbiamo celebrato l’unione eucaristica.

Oltre all’arredamento, essenziale e austero, alla lingua e l’abito civile degli officianti, mi hanno incuriosito due dettagli: l’ostia, o le particole, sostituite da modesti ritagli di pane; l’avvicinamento alla comunione. Se nella religione cattolica sono i fedeli che dai banchi raggiungono il prete, nel rito luterano – o perlomeno nella Cattedrale di Sant’Olaf – sono i chierici che raggiungono i fedeli, offrendo loro il pane e il vino.

Compostezza che varcando la porta d’ingresso esplode gioiosa nella dimensione cittadina.

Nel personale delle locande, tra gli ambulanti nella piazza del municipio e nell’antica farmacia è ricorrente l’abbigliamento medievale.

Mentre nell’aria si liberano i profumi di carni speziate, zuppe e noccioline tostate, non è insolito imbattersi in buie locande, accolti da locandiere sbrigative e volutamente rudi che istruiscono il viandante indicando un calderone dal quale arpionare i cetrioli e la cesta nella quale riporre le brocche al termine della refezione.

Non essendo contemplate le stoviglie – le zuppe si bevono da logore ciotole di terracotta -, la possibilità di ungersi o insudiciarsi è elevata. Nulla di sorprendente per le donne che solo dopo il matrimonio hanno scoperto di aver sposato una bestia e non un uomo.

Per il pagamento non è ammessa né la valutazione in libbre, né il privilegio feudale. Va bene la retorica del medioevo, ma chi deve prendere per il culo chi non è l’ospite a deciderlo.

Ripercorrendo i sentieri medievali, il miglior ritratto della città è offerto dalla collina di Toompea, sede della Cattedrale di Alexander Nevsky, gioiello dell’architettura bizantino-russa. Il castello prospiciente, le cui mura sono visibili nel lato posteriore, è l’attuale sede della presidenza estone.

Nei pressi di Toompea, accedendo dall’arteria esterna, un grande masso ricorda le barricate sollevate dagli estoni per respingere l’invasione sovietica.

Evadendo dall’antico borgo, dove pittoresche case di legno convivono con i moderni edifici e le riqualificate aree industriali, costeggiando il mare, si raggiungono il Monastero di Santa Brigida, del quale resistono le mura perimetrali, e il distretto di Kadriorg, sede dell’omonimo Palazzo edificato per volere di Pietro il Grande in onore della moglie Caterina di Russia.

L’evasione più affascinante rimane tuttavia la vicina Finlandia, Helsinki dista a appena due ore di nave. Un’esperienza quantomeno utile per indagare le nebulose ragioni per le quali la Finlandia sia famosa e l’Estonia no.


  1. Mia nonna diceva: perché bisticciare per un pallone, non possono dargliene uno a ciuscuno?

  2. Ogni volta che mi sento. In colpa per.unz menzogna.

  3. Un partigiano come Presidente, forse il popolo non se l’è meritato…ma nemmeno Toto Cuttugno.

Il tacco Bianco

C’è qualcosa di calviniano nelle città della Puglia, nel bianco lucente che resiste al tempo e alle contaminazioni. E’ bianca Altamura, terra di frontiera tra Puglia e Basilicata, teatro di una vivace contesa con la città di Matera sull’arte del pane. E’ bianca Ostuni, dove dimesse insegne novembrine richiamano la memoria di un’estate felice. E’…

Paraculopatici

Che sul campionato di calcio tirasse una brutta aria, lo si era intuito dal cognome del principale indagato. Che la categoria dei calciatori non brillasse per sobrietà e acume non sorprende. Che Fabrizio Corona si alimentasse di scandali e indignazione popolare, più che palese era scientifico. In attesa che l’inchiesta riveli nuovi profili, che le…

La tregua amata

Se per comprendere un fenomeno sono essenziali intuito e osservazione critica, sovente oscurati da verità sartoriali, la radicalizzazione della crisi israelo-palestinese, sembra deporre più a favore dei teorici da bar che di esimi analisti. Ne deriva che ogni profuso sforzo interpretativo, evocando i motti del passato, più che difficile si rivela inutile. Tanto più se…

Le tette di Giulietta

La tragedia di Romeo e Giulietta, nel cui ritratto s’imprigiona l’identità veronese, trionfo di romantico ardore, è un passaggio importante ma non esauriente della bellezza che annovera Verona tra le più importanti città d’Italia. Tanto più quando il romanticismo è esibito da maschi famelici che, assecondando i voleri di mogli fidanzate e amanti, danno sfogo agli istinti più barbari avvinghiando le tette di Giulietta, lucidate – come le corna di Romeo – non dal nobile sentimento ma dalle palpate che quotidianamente ne vìolano la passione e il lutto.

Una devianza nella quale, leggendo la tragedia, non può esimersi da responsabilità lo stesso Shakespeare, quando scrive: “Insegnami a scordarmi di pensare“. Impegno che l’uomo già assolve con lineare coerenza.

Nel ricamo di strade, ponti e piazze, sulle quali eleganti palazzi nobiliari rivelano il candore degli stucchi e severi arredamenti ottocenteschi, scorre impetuoso l’Adige, bussola e anima della città. Movimentando uno spartito nel quale convivono armonici la festa e il silenzio, risale dai quartieri sottoriva il chiacchiericcio impegnato di veronesi e turisti.

Che ore sono? – mi chiede il cameriere della trattoria in cui ci fermiamo per pranzo.
L’una! – rispondo.
All’una qua stanno già bevendo da sette ore. Vedi quelli? – indica un tavolo occupato da quattro uomini-. Quelli sono autentici alcolisti professionisti veronesi. Sono tutti i giorni qua.

D’altronde, se Verona è chiamata la Porta D’Italia, crocevia di traffici e commercio, quella porta basta varcarla e seguire i profumi della Valpolicella, delle carni, del baccalà, perdendosi tra osterie e bistrot.

Ma guarda che qui a Verona non abbiamo nulla di nostro! Noi prendiamo i buoni prodotti dei paesi vicini, ci mettiamo il vino e lo facciamo diventare di Verona. Te l’ho detto che qui sono tutti alcolizzati – insiste il cameriere.

Ordiniamo allora una sbrisolona mantovana. Ma con grappa veronese.

Il resto, stretto nell’abbraccio di fortificazioni che testimoniano un passato glorioso, è un’escursione nella meraviglia. Da Piazza Bra’, dove imperiosa si erge l’Arena, in pochi minuti si raggiunge Piazza della Erbe, cuore del mercato veronese.

Una rotazione a trecentosessanta gradi, dal centro della piazza, immerge lo spettatore in un frastaglio di linee e forme. Opulenza che tra facciate signorili, fontane, scale, torri, trova la massima esaltazione nelle vicine Arche Scaligere. Il sepolcro monumentale che da oltre settecento anni ospita le spoglie delle più importanti personalità del casato dei Della Scala.

La dinastia Della Scala governò la città di Verona per centoventicinque anni, dal 1262 al 1387. Un prestigio che raggiunse l’apice sotto Cangrande, al quale Dante Alighieri – che per suo conto svolse varie missioni diplomatiche – dedicò l’ultima cantica della Divina Commedia.

Conquistatore, politico, amministratore, mecenate, Cangrande diede lustro alla città e alla fazione ghibellina. Un grande uomo, ma niente a che fare con le tette di Giulietta.


Sotto il cielo di Giotto

Una nota a margine, a causa del poco tempo trascorso, merita la città di Padova. Il minimo per un luogo che, sotto l’aura protettrice di Sant’Antonio, ha dato i natali a Tito Livio, Mantegna, ha ospitato Galileo Galilei, che qui insegnò fisica e scienze, custodisce il ciclo pittorico dipinto da Giotto nella Cappella degli Scrovegni.


Classificazione: 1 su 5.


  1. Mia nonna diceva: perché bisticciare per un pallone, non possono dargliene uno a ciuscuno?

  2. Ogni volta che mi sento. In colpa per.unz menzogna.

  3. Un partigiano come Presidente, forse il popolo non se l’è meritato…ma nemmeno Toto Cuttugno.

Un ottobre fa

Se potessimo riportare le lancette indietro di un anno, gli eventi ci catapulterebbero in una giornata elettorale con Giorgia Meloni che furente infiamma le folle denunciando inarrestabili ondate migratorie, il ragguardevole costo dei carburanti, le equivoche tendenze sessuali che, ostacolando la famiglia tradizionale, starebbero neutralizzando la maschia robustezza italica. E’ durante un incontro politico che…

Adesso lo scrivo su Facebook

Se in un tempo remoto, a tutela di un’ingiustizia o di una calunnia, era buona abitudine rivolgersi al maresciallo o al magistrato, da quando il metro digitale si è sostituito al diritto, e alle buone maniere, un pratico metodo si è imposto a usi e consuetudini: “adesso lo scrivo su Facebook”. Una procedura sommaria che…

La sindrome di Calboni

La proposta del Ministro dei Trasporti di sanare piccole irregolarità architettoniche, edilizie e urbanistiche, profila per il Governo Meloni il quindicesimo condono in nove mesi. Fuori da pretestuosi rilievi polemici, che miseramente prosperano nel belpaese sorridente, gli osservatori più critici fanno tuttavia notare che Matteo Salvini, affermando lo stesso principio -il rispetto della legge -…

Palermo

Come per convenzione accade in Italia, la prima guida turistica è il tassista.

E’ lui che introduce i luoghi che alla cronaca, alla storia, al cinema devono onori e notorietà. Nel taxi trovano forma manifestazioni espressive, stati d’animo, contraddizioni. Emozioni che – per noi – si palesano nei pressi dello svincolo per Capaci, dove rompe il silenzio l’indignazione per il malcostume edilizio che a cavallo degli anni ’50 e ’60 stravolse la città. Tremila concessioni in un mese. Non ricordo quante in una sola notte.

Un affronto alla grandezza bizantina, alle vestigia arabo-normanne, all’architettura religiosa, che improvvise si ergono tra viuzze sperdute e chiassosi banchi del pesce. Un’incursione che all’ombra di cupole rosse, facciate cadenti e antiche botteghe artigiane aiuta a farsi un’idea della città, dei suoi abitanti, dei luoghi comuni. Il traffico, per esempio. Un terrore illusoriamente sterilizzato dall’ampia pedonalizzazione che dai Quattro Canti si dirama lungo le principali assi viarie della città, favorendo il raggiungimento dei monumenti di maggior prestigio.

Ai margini catturano la scena cavalli, carrozze e artisti di strada.

Percorrendo un reticolo di incroci e vicoli arabeggianti, dove degrado e barocco si contendono il quartiere, i fumi e il confuso vociare inghiottono i mercati, estasi del commercio e dell’accoglienza cittadini. Da Ballarò a Vuccirìà, un duo palermitano ci accompagna con il canto di Donna Amalia, matrona alla quale un’indiscreta comare rivela i pettegolezzi del palazzo.

L’illusione che la piaga del traffico fosse un’esasperazione cinematografica, svanisce il penultimo giorno nel tragitto per Monreale, dove ci rechiamo per visitare il Duomo.

L’imponente architettura esterna, simbolo della città, inaugura un’altrettanto maestosa struttura interna, dominata dal mosaico absidale del Cristo Pantocratore, dalle tombe dei regnanti Guglielmo I e Guglielmo II e dalle illustrazioni evangeliche. Secondo la leggenda, a seguito di una rivelazione mariana, il Duomo fu costruito con le monete d’oro rinvenute sotto un carrubo a ridosso del quale Guglielmo il Buono si era riposato dopo una battuta di caccia.

L’unica delusione, per non averne potuto apprezzare la l’eleganza, è stata il Teatro Massimo, visitato a luci spente per non turbare le prove di un evento in programma.

Una nota a margine per i citazionisti più appassionati: il prezzo delle banane non ha risentito delle oscillazioni inflattive, l’intercalare minchia è meno utilizzato di quanto si pensi, è ancora ignoto cu’ minghia era ca faceva ‘u tacchino.

  1. Mia nonna diceva: perché bisticciare per un pallone, non possono dargliene uno a ciuscuno?

  2. Ogni volta che mi sento. In colpa per.unz menzogna.

  3. Un partigiano come Presidente, forse il popolo non se l’è meritato…ma nemmeno Toto Cuttugno.

Telepatriota

Dobbiamo essere onesti, lo dobbiamo al governo dei patrioti: se l’estate italiana, insidiata dallo spettro di una catastrofe climatica, è stata superata senza traumi, un merito è da attribuirsi alla collocazione televisiva di Andrea Giambruno, plastico compagno di Giorgia Meloni. Con quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così che hanno i patrioti, da…

All’ombra dei fanciulli in treno

Dell’articolo che tanta indignazione sta costando al giornalista Alain Elkann, colpiscono due aspetti: la pregiudiziale critica del suo pensiero, derubricato a freddo classismo nobiliare; l’imprudenza con la quale il giornalista – al quale non fanno difetto gli strumenti intellettuali – si perde in fuorvianti orpelli che spostano i termini della riflessione. Cronaca di un’ odissea…

Italoistmo

Salvare stralci di stagioneSuonare prima delle sei (forse sì, forse no)A San Teodoro un concertone Da noi cloniamo Casadei (dimmi di sì, dimmi di no) Ho un ballo lento da piazzare così vuol la gioventùA volte ho l’ansia che mi sale (che mi sale)La cosa che mi fa invecchiare mentre Aglientu porta il Blue’sIn piazza…

Classificazione: 1 su 5.

Napoli

Ciao amore di papà, com’è andata?” Il viaggio inizia così, col tassista che riceve la telefonata della figlia contrariata per lo spostamento dell’esame. Ignara di essere in viva voce contesta la motivazione addotta dal docente, che dovendo assistere la mamma non potrà interrogarla prima di novembre. “E che c’entra?! – dice lui – “quello fa o’ professore,mica fa l’infermiere. Mica fa o’ dottore.” Annuiamo.

Napoli, via mezzocannone. La prossimità con l’alloggio, situato nel cuore universitario di Napoli, ci conduce a Piazza San Domenico, dove ci imbattiamo in Polone, il secondo personaggio di questo romanzo partenopeo. Un cartello scritto a mano avverte i passanti: “Ogni duemila anni nasce un genio. Duemila anni avanti cristo, Pitagora. Duemila dopo Cristo, Leonardo. Dal duemila al quattromila, Polone”. Dalla cattedra ricavata adagiando due tavoloni su una fioriera, Polone, genio matematico, lancia la sua quotidiana sfida al mondo. Basta pensare a un numero da 1 a 60. Scorgendomi fotografare la sua postazione, con orgoglio, mi dice: “Quello sono io“.

Attraversando via dei Tribunali, davanti a una bottega che vende pasta a forma di cazzetti e fichette, faccio il primo investimento: la chiave di San Gennaro. “Con questa hai salute, amore e pace“, mi garantisce il pittoresco venditore.

Tra secchiate di detersivo e motorini sfreccianti in spregio alle leggi della fisica, e del codice, una bionda locandiera strilla ai passanti: “Pizza, pasta, pasta, pizza, pizza, pasta… buongiorno signorina, ce lo mangiamo un piatto di pasta?
No, grazie!
E vabbè, sarà per domani.

Giunta la sera, con un’idea della geografia urbana, e la prima pizza archiviata, dirotta il rientro in albergo il Canto di Ciccirinella, un’antica filastrocca dialettale. Al giovane cantante, un portapizze disarcionato dal motorino per esibirsi sul bordostrada, fanno il controcanto due ragazzi seduti sui gradini, un cane e, appena defilato, un istrionico signore gestualmente teatrale.

Risalendo vico San Domenico, dal tavolo di una trattoria, un uomo ascolta una melodia proveniente dal vicino chiostro. Punta il suo dito indice contro Maria Antonietta, chiamandola all’ascolto: “Senti, senti, senti…“, le dice prima di esplodere in un canto appassionato: “Chisto è ‘o paese d’ ‘o sole, chisto è ‘o paese d’ ‘o mare, chisto è ‘o paese addò tutt’ ‘e pparole, sò doce o sò amare, sò sempre parole d’ammore.” Mai visto prima.

Apprezzati il Complesso monumentale di Santa Chiara e la basilica, che conserva la cappella dei Borbone e il feretro di Salvo D’Acquisto, introducendo il secondo giorno, muoviamo alla volta di Pompei, l’antica città seppellita durante l’eruzione del 79. Fra le attrazioni la Basilica, la villa dei misteri, i due anfiteatri, il lupanare. Quest’ultimo, luogo dai romani deputato al piacere sessuale, assaltato dalla curiosità dei visitatori e dallo scherno degli operai della soprintendenza.

Ma torniamo ai giorni nostri. Dopo il tassista, Polone il matematico, la bionda locandiera, gli orchestrali di Ciccirinella, la nuova maschera è un ambulante senegalese da venticinque anni residente a Napoli. Fa la sua comparsa in treno confezionando strampalate teorie sulla natura della pandemia: “Tu ci credi a questa a cosa del virus?… O no‘!”.

Una rottura di coglioni saldata in prima persona da un adolescente, anch’egli con marcate asimmetrie, dal quale pretendeva un cenno di convinta contrarietà alla dittatura sanitaria. Il giovane, impegnato più dall’incastro della mascherina che dalla vulgata complottista del senegalese, non capendo cosa diavolo volesse, replicava: “Ma che vuoi?” E l’altro: “Ma non capisci o non vuoi capire? Tu ci credi a questa cosa del virus, o no?!“. “Ma cosa?!” insisteva il giovane. Lui: “Ma non capisci o non vuoi capire? Tu ci credi a questo Corona virus… o no?! Questa è una dittatora.” Una litania perpetuata per l’intera durata della corsa.

Nel frattempo le stazioni scorrevano rivelando i segni della periferia, il degrado, in armonica convivenza solo nei quartieri spagnoli, dove caotici mercati rionali, murales, palazzine fatiscenti, inghiottono via Toledo, la sua eleganza stilistica, divenendo loro l’attrazione.

Napoli è in quelle strade, è negli occhi della donna che risalendo via Forcella poggia le buste della spesa su un muretto e si è ferma a chiacchierare con noi: “Che ne pensate di Napoli? Vi sta piacendo? E ‘bella, eh?!“.

Lapilli di umanità che cadono sul visitatore declinando l’identificazione retorica della città con l’insicurezza e la maleducazione. Napoli è una città gentile, gioisa, che regala e chiede sorrisi.

E finalmente uno che fa un sorriso!” mi ha detto un venditore ambulante nei pressi di Piazza Plebiscito. “Di dove sei amico mi’? Com’è Napoli?… E non glieli compri un paio di calzini a Candy Candy?


Unti e presunti

La vera questione, trascurata da autorevoli tribuni , non è la vergata violenza di Penna di veleno, la sua provocazione tonante, l’irruento suo ingresso in una vicenda che, per appartenenza tribale, depone a favore del presunto carnefice o della presunta vittima. La vera questione è che vittima e carnefice sono solo presunti, appesi alle rivelazioni…

la sirenetta, un anno dopo

Estate 2023. Dopo un anno di impegni cinematografici, Ariel riaffiora dalle cristalline acque della Gallura e, posandosi sullo scenico scoglio di Aglientu, svela all’avvenente bagnino Massimiliano la sua fascinazione per il mondo umano e il borgo di Santa Teresa Gallura; teatro in quei giorni di uno scoppiettante calendario di eventi. Seducendolo con l’ammaliante canto, la…

Il Cavaliere

In vita fui il cavaliere di Arcoreda morto me ne andai tra il giubilo e la beatificazionesulla mia pietra hanno inciso le parole: mi consenta! Non provaste dolore, gente a me ostile,quando il feretro attraversò il Duomoper salutare chi i milioni fece di denari e d’amori. Nessuno di voi fu tanto furboda seguire le mie…

Classificazione: 5 su 5.
  1. Mia nonna diceva: perché bisticciare per un pallone, non possono dargliene uno a ciuscuno?

  2. Ogni volta che mi sento. In colpa per.unz menzogna.

  3. Un partigiano come Presidente, forse il popolo non se l’è meritato…ma nemmeno Toto Cuttugno.

Porto

Quando visito una nuova città, prima di lasciarmi alle spalle lo stridore e le correnti della metropolitana, ho l’abitudine di rallentare il passo, di salire flemmaticamente gli ultimi gradini, timoroso di consumare l’attimo in cui la città si rivelerà ai miei occhi.

A Porto, complice la la scelta di soggiornare a Bolhão, il quartiere del mercato, quest’impatto emotivo è stato assorbito da Capela das Almas, dalle scene di vita francescana che esplodono nella tecnica decorativa degli azulejos, nel tratto bianco e blu ricorrente in molti edifici della città: dalla vicina  Igreja de Santo Ildefonso alle pareti della stazione di Saõ Bento, nelle quali sono raffigurate le celebri battaglie portoghesi.

Ma il piacere di Porto e l’esplorazione, l’incosciente vagare nel dedalo di vicoli medievali, di intersecazioni, di scale strette e  ripide che, rispondendo al  richiamo del fiume, piombano nei  colori e nella verticalità delle tipiche abitazioni della Ribeira,  il quartiere più caratteristico della città.

Dichiarata patrimonio dell’Unesco, Ribeira, si erge sulla sponda del lungofiume, sulla quale orde di turisti ammirano sedotti l’imponenza del Ponte Dom Luìs I e le imbarcazioni un tempo adoperate per il trasporto del vino nella prospiciente Vila Nova de Gaia. Le due città sembrano specchiarsi narcisisticamente  una sull’altra.

Risalendo dai vicoli, dove non è insolito imbattersi in anziane donne che puliscono il pesce per strada, dalle botteghe e dagli sfiati delle cucine afrori di  baccalà e uova strapazzate avvolgono il passaggio, senza tuttavia profanare l’opulenza della vicina Igreja de São Francisco o del Palàcio da Bolsa, nella quale splendono le decorazioni neomoresche della Sala Araba.

A Porto è tutto perfettamente armonico, il vecchio e il nuovo si fondono in uno sguardo confuso da panorami pittoreschi, campanili svettanti, mercati, lenzuola che sventolano dai piani  alti rivelando facciate sontuose e  stucchi cadenti, tram che resistono all’assalto della modernità. Armonia nella quale trova una collocazione romantica anche la scaltrezza predatoria dei gabbiani.

Fra tanta magia, a deludere è l’unica attrazione legata all’esoterismo: la Livraria  Lello, certamente caratteristica per la sinuosità degli interni, delle scale,  ma che  non merita una lunga attesa. Soltanto libri e un po’ di furbizia, citando Harry Potter.

 


IMG_7643

Vienna, l’imperiale

Girando a Vienna cerchi l’imperatrice Sissi, la maliarda che rifiuta gli agi di corte mitteleuropei,  l’eroina interpretata da Romy Schneider, ma trovi Francesco Giuseppe, chiamato appena diciottenne a raccogliere le sorti di un impero in via di disfacimento dopo i  moti del 1848. Uomo politicamente ambiguo, sospeso tra riformismo illuminante e assolutismo, funestato da lutti e sventure che si accaniscono sui fasti di un passato glorioso.

Ma se le letture storiche e biografiche possono prestarsi all’interpretazione, non può dirsi altrettanto delle tracce di uno splendore che si coglie anche negli spazi  più reconditi della città,  nelle barbe alla Francesco Giuseppe di barman e commessi, nella raffinatezza degli edifici, nel fulgore eburneo di palazzi e chiese.

Anche il visitatore più esigente non potrà negare la maestosità della Hofburg, oggi residenza presidenziale austriaca, sulla quale la presenza di cavalieri e carrozze getta, principalmente nell’ala dirimpetto a Michaelerplatz, un’aura da romanzo ottocentesco e curiose somiglianze con illustri personaggi del mio paese.

Al suo interno, attraversando i  corridoi lungo i quali si combinavano le formalità del potere e l’intimità quotidiana, si possono ammirare gli appartamenti del Kaiser e – al primo piano – i tesori imperiali, dove tra le collezioni di candelabri e sfarzosi centrotavola ho indugiato davanti a un servizio di piatti placati in oro. La cromatura dorata fu un espediente adottato dai regnanti per ben figurare negli incontri con le autorità straniere. Sostituiva quello autentico, in oro zecchino, fuso per risanare le finanze dell’impero.

Maestoso ma meno attraente, almeno dal mio punto di vista,  il Castello di Schönbrunn, la residenza imperiale estiva degli Asburgo, dalla quale si può apprezzare un  panorama esclusivo sulla città, tanto più esaltante dalla Gloriette, dove al gusto dell’architettura viennese  e al piacere bucolico si fonde l’estasi della quiete.

Con la Hofburg e la reggia di Schönbrunn, il Castello del Belvedere, capolavoro dell’architettura barocca,  è il terzo gioiello. Per esigenze di tempo abbiamo visitato solo la parte superiore. Attraversando la sontuosa sala dei marmi,  si accede a una delle più importanti collezione d’arte austriaca, che ha nelle opere di Gustav Klimt i pezzi pregiati, a cui fanno da contorno i dipinti di Schiele, i tormenti esistenzialisti di Gerstl, le teste di carattere di Messerschmidt, che l’autore scolpiva con maniacale perfezione osservando le contrazioni espressive provocate con l’autolesionismo.

Ma se i musei disvelano l’arte e il prestigio nobiliare austriaci tra le mura, è  la Vienna urbana  a colmare d’ammirazione il visitatore: un connubio  di ordine e di eleganza che non si scompone neanche nell’ennesima manifestazione a favore del popolo curdo o  risalendo le scale della  metro, dove al misero prosperare delle stazioni italiane, Vienna, come una sciantosa, risponde con le lamine dorate di Otto Wagner.

 


«Nulla mi è stato risparmiato su questa terra»
Francesco Giuseppe all’annuncio della morte della moglie.

L’ombra di Socrate

[Atene, diario di viaggio]

Se si eccettua  la turbolenza politica degli ultimi anni, che ha il merito di aver riesumato la Grecia dalla necropoli dell’anonimato, l’idea di ripercorrere le orme dei maestri del pensiero e – scomodando caparbie reminiscenze adolescenziali – il piacere di attraversare la terra della giovane Pollon, hanno sensibilmente influenzato la scelta di questa città; eludendo tanto personali quanto opinabili diffidenze.

Atene è una città imprescindibile: per l’eredità civile trasmessa ai posteri,  per il patrimonio archeologico, per l’essere madre dell’essenza filosofica. Possiamo criticarne gli eccessi, il disordine, la reprensibile leggerezza amministrativa, ma non il lascito.

Per il modo in cui l’informazione indottrina il telespettatore, l’italiano che atterra in Grecia non pensi tuttavia di avvilupparsi nella cupezza di una città dilaniata e decadente. Atene è l’esatto contrario. Dietro l’orgoglio nazionale che l’ha schermita dal cinismo della ragioneria europea, la Grecia, Atene in particolare, ti sorprende per vivacità, calore e accoglienza. Tanto più se sei italiano.

Vuoi per il valore del compianto prestigio storico, vuoi per quel bacio mortale strappato sull’orlo del precipizio  (ricordate quando si vociferava che avremo fatto la fine della Grecia?), è un fatto  che nei nostri confronti gli ateniesi nutrano un’autentica adorazione. Nonostante il dramma consumato dai veneziani nel 1687, quando fecero saltare in aria le componenti architettoniche del partenone, tempio della democrazia. E viene il sospetto che i veneziani – che per ovvie ragioni non erano ancora italiani – fossero già coscienti che la democrazia fosse una cosa troppo seria per essere lasciata ai soli democratici.

Con questo non voglio negare l’esistenza della povertà o del disagio, che – come in ogni altro angolo del mondo – si acuisce nelle aree periferiche. Ho ancora davanti il ragazzo che raggiungendo il tavolo in cui stavamo cenando, dopo aver accertato la mia nazionalità, in italiano mi ha detto: “sono senza casa da una settimana, aiutatemi.” E io, ma anche gli altri,  fingendo di non sentirlo non l’ho neppure degnato di uno sguardo. E’ vero che non possiamo elargire elemosine a tutti i questuanti, ma è altrettanto vero che questa impossibilità è diventata un alibi per non aiutare nessuno. Siamo degli egoisti seriali, lucidi, ci inteneriamo solo quando la discussione riguarda fenomeni geograficamente lontani. Quando la sofferenza ci passa accanto, l’egoismo scatena i suoi anticorpi e diventiamo ciechi, non solo a quegli arti lordi e anchilosati.

Per esempio: avete più sentito parlare di Aylan, il bimbo siriano trovato morto sulla spiaggia di Bodrum? Ricordate quel corpicino esanime raccolto dal poliziotto turco? No, non ne avete più sentito parlare. E non lo avete fatto neanche voi.

Ma torniamo alla Grecia, ai suoi vicoli, alle accelerazioni ritmiche del sirtaki, alle corde pizzicate da musicisti virtuosi, capaci di generare una miscela umorale al tempo stesso allegra e malinconica, che si posa lieve nei visi della gente, in particolare di chi viaggia in metropolitana.

Nella mia percezione Atene è questa: una città allegra, ma non fino in fondo; conservata, ma non fino in fondo (la speculazione edilizia ha provocato danni devastanti); tenace, ma non fino in fondo.

Un limite che ricorda Poseidone quando, contendendo ad Atena il ruolo di protettore della città, donò agli abitanti una sorgente di acqua salmastra, alla quale gli ateniesi preferirono l’ulivo – certamente più fecondo – offerto dalla dea della sapienza.

Eppure, nonostante i limiti che palesa, Atene è una città ancora capace di stupire, di suggestionare. Come se a sorvegliarne la memoria ci fosse un’ombra; tanto presente da infondere il timore che anche lo sturamento delle abluzioni mattutine, attraversando le condotte, profani il perimetro di un villaggio ancora inumato. Passeggiando lungo le strade di Atene, è tale  la percezione della grandezza che, nel dubbio,  porteresti all’accademia delle belle arti anche la linguetta di una lattina di coca cola incautamente calpestata nel selciato.

Atene ė come Roma, scoperta e da scoprire. Come la veranda nella quale l’ultima sera ci hanno invitato ad accomodarci: “prego, scegliete il tavolo che preferite. C’è anche la veranda all’aperto. Qui è tutto aperto perché non abbiamo niente da nascondere.” E intanto quell’ombra…


La nota di colore, come al solito, è tutta italiana. Arrivati a Ciampino, nel tragitto che dall’aeroporto ci conduceva al centro cittadino, l’accademia ateniese è scaduta nell’ironia amatriciana del conducente dell’autobus che, rivolgendosi a uno spaesato viaggiatore sudamericano, ha pruriginosamente alluso: “chi ce l’ha piccolo paga di meno, chi ce l’ha grande paga di più.” Il bagaglio ovviamente.

L’amarezza di Lisbona

Lisbona non ti colpisce subito: è subdola,  è lenta, ha i suoi tempi e sa importeli. Come una femmina maliarda, Lisbona ti avviluppa, ti accarezza la  pelle e da essa si lascia assorbire; così, dopo una giornata macchiata dal  sudore e dagli smarrimenti, non sarà una doccia a levartela di dosso.

Attraversando la città, non lascia indifferenti l’aura di malinconia che brilla negli occhi dei portoghesi. Sorrisi parsimoniosi e tratti somatici induriti dal tempo e dal lavoro, si fondono con un’atmosfera rilassata e dimessa, in cui anche lo spaccio viene esercitato con ingenua disinvoltura.Soprattutto nel bairro alto, locali angusti e decadenti si coniugano con gestioni familiari in cui tutti vendono un buon motivo per sedersi ai loro tavoli: il panorama più bello di Lisbona, il baccalà più buono di Lisbona, il dolce più famoso di Lisbona. Ma, attenzione, non è una dozzinale  faida tra attività concorrenti. E’ tutto vero! Ognuno ti cede un tratto esclusivo.

Se dovessero chiedermi quando ho capito di aver colto la bellezza di Lisbona, sceglierei un particolare attimo che, come un brivido, mi ha attraversato  durante l’ imbarco nel volo di rientro. Un lampo di amarezza, malinconico come certe cadenze del fado. Insomma, una bellezza in differita che ne ha esaltato virtù e contraddizioni. Solo una città contraddittoria, insudiciata dagli afrori di piscio e baccalà,  in cui il degrado convive armonicamente con la sontuosa architettura manuelina, può ammettere certe distorsioni.

Chiaramente le impressioni delle persone sono volubili, dipendono dagli occhi dell’osservatore; ma non si può imbrigliare il giudizio nel perimetro manicheo del bello o del brutto. Tantomeno puoi farlo in una città complessa come Lisbona,  che  al tempo stesso è vivace e malinconica, gentile e sgarbata, elegante – senza mai essere eccessiva – e decadente. Forme e contraddizioni ben rappresentate in un monumento, quello che maggiormente mi ha colpito: le rovine del convento do Carmo. E’ stato il più grande edificio gotico di Lisbona, uno dei tanti oltraggiati dal sisma che alle 9,40 di quel maledetto primo novembre del 1755 rase al suolo la città, precedendo di soli  quaranta minuti un altrettanto violento maremoto che travolse i sopravvissuti che, in cerca di rifugio, dalla parte alta della città si erano riversati nel quartiere della Baixa, in prossimità del fiume.

Nella tragedia, mi fa amaramente sorridere il pensiero che, dopo duecentocinquanove anni – sempre il primo  di novembre – davanti a quel sudario di disperazione c’ero io; curioso come certi navigatori portoghesi, scopritori di quel luogo che  – a torto o a ragione – chiamiamo mondo.

La malia lusitana si è decomposta a Bergamo, catapultandoci nel magico mondo degli stereotipi italiani; segnatamente, quelli dell’ anziana signora che con il fratello gestisce il piccolo albergo (si fa per dire) in cui abbiamo soggiornato. La signora, affetta dalla tipica ubbia del leghista medio, si lamentava di tutto: si lamentava dell’Italia che non va, nonostante il nord (eppure qui non siamo in Sicilia, né…), dove i nuovi scali  agevolati dal low cost e booking.com  hanno sì offerto una possibilità, ma non alle vecchie locande, schiacciate dalla prepotenza delle grandi catene alberghiere, che allo stesso prezzo (ma come fanno, me lo dica lei?!) offrono servizi più elevati. Tutta colpa dei politici, sono tutti uguali né! A proposito, lo sa che la mia amica abita davanti alla casa del sindaco. Lo conosce il sindaco?! E’ il marito della Cristina Parodi. Ma ci pensa? Che fortuna, eh! Quando la mia amica si affaccia in veranda, vede il suo giardino e vede anche loro.

La signora, alla guida di una vecchia punto fuori produzione, probabilmente utilizzata per trasportare la legna, era il nostro servizio navetta. Le sono bastati pochi minuti per raccontarci la sua vita, le sue speranze e, giunti in aeroporto, le sue raccomandazioni: occhio, qua rubano! In poche ore siamo passati da Vasco Da Gama alla sciùra di Ber-Gama.

Bentornati in Italia!