Sinner, il sardo

Ha preso il via nei sinuosi tornanti di Scala di Djokovic, che dalla centoTrentino immette a Sassari, il battesimo elettorale di Ghjuannik Sinner, nella sorpresa generale candidato alla Presidenza della Regione Sardegna.

Atterrato a bordo di un Boeing 737-200 nello scalo di Isili, sede della compagnia di bandiera EasyliJet, ha salutato deferente il pubblico distribuendo cassette di zucche e Carote di Terralba, cromaticamente affini ai capelli e ai colori sociali del velivolo.

Sinner, memore dell’ammirata scuola oranese, ha esibito nella scelta delle parole, come nella disciplina sportiva, meticolosità sartoriale, confermando di poter giocare sul velluto anche in una contesa elettorale.

«Siamo qui per un mattino nuovo che non ci regalerà nessuno, ma che ci dovremo prendere da soli. Anzi, Assolo!» ha detto Ghjiuannik riprendendo dalle tribune di Assolo le parole poco prima proferite da Renato Soru a Ula Tirso .

Scalato dal Sestu al Quartu posto nella classifica ATP dopo il successo agli Austis Open di Meana, anche le proiezioni elettorali sembrano sorridere al giovane sportivo. Le prime rilevazioni, sensibili alle mirate Perdasdefogu scagliate all’indirizzo dei più diretti avversari, stimano a suo favore un punteggio tennistico:

Seui – zero
Seui – zero
Seui – zero

Numeri che consacrano Sinner ai vertici della politica regionale, arricchendo la già prestigiosa affermazione ottenuta con la vittoria del torneo Roland Gavoi, dove – dopo una battaglia di quasi quattro ore – ha prevalso contro un fiero e misterioso sottosegretario sardo.

Sull’andamento della campagna elettorale tuttavia grava la polemica sollevata dai giornalisti Stella e Aritzo dalle colonne dell’Unione Sardara. Criticato – con opinabili letture morali – per aver trasferito la propria residenza fiscale nel Principato di Casin ‘e Pompu, la stampa contesta che ai benefici fiscali – vissuti tra lussi e ville con Piscinas – non corrisponda un’altrettanto munifica contribuzione a favore della Regione.

Un Furtei, secondo gli indipendentisti, ancora più grave dell’abigeato e del racket.

Nell’auspicio che la polemica si plachi, Ghjuannik Sinner ha frattanto annunciato il calendario della sua campagna elettorale. Gli incontri proseguiranno a Santa Teresa Gallura, dove il numero di candidati ha superato quello degli abitanti censiti, e si concluderà a Sant’Anna, dove – in polemica con l’amministrazione comunale – gli avversari si sarebbero già Arresi.

Brume che gravide si addensano anche sul Comune dell’attuale Governatore Christian Solinas, che già annuncia Capoterra battuta.




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La Putin Doll

La Putin Doll è una linea di bambole tutte simili, interscambiabili negli abiti e nei ruoli, commercializzata da Mattel Corporation  e ideata sul modello di una partigiana filorussa. Con accessori vendibili separatamente, è – secondo le contingenze – interscambiale con tratti identitari della politica filopalestinese, filoiraniana, filosiriana. Per venire incontro alla clientela più esigente, non ha…

Rutti

Abituati come siamo a esaltare l’autoreferenza di frettolosi interpreti digitali, abbiamo a tal punto smarrito la misura dell’arte da licenziare come stolto egocentrico uno dei più abili e corrosivi autori presenti sulla scena italiana. Autore di composizioni sopraffine e di scazzi memorabili, ha da solo nobilitato l’ultimo concerto del Primo maggio lanciando strali contro la…

Sabato antifascista

All’apparenza sembrava un sabato qualunque, di quelli che già profumano di domenica, di sveglie ritardate, di pigrizia pomeridiana. Ma non per tutti. Per Benito era il primo sabato antifascista. Così, dopo essersi lui medesimo dichiarato antifascista, Benito, alleggerito dalle funzioni corporali, si recò in cucina, accese i fornelli e avviò la preparazione del caffè dosato…

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Il tacco Bianco

C’è qualcosa di calviniano nelle città della Puglia, nel bianco lucente che resiste al tempo e alle contaminazioni.

E’ bianca Altamura, terra di frontiera tra Puglia e Basilicata, teatro di una vivace contesa con la città di Matera sull’arte del pane.

E’ bianca Ostuni, dove dimesse insegne novembrine richiamano la memoria di un’estate felice.

E’ bianca Cisternino, che dal belvedere accoglie gentile i tramonti della Valle d’Itria.

E’ bianca Alberobello, con i tipici trulli e le  meravigliate espressioni dei visitatori.

E’ bianca Locorotondo, la cui sinuosità disvela le sue origini toponomastiche.

E’ bianca Martina Franca, barocca, labirintica, nella fortunosa nostra occasione allestita per le riprese sulla vita di Giacomo Leopardi.

Prosa che storta si  combina con la locale interpretazione del codice della strada.

E’ bianca Monopoli, che dall’arco basso si immerge nel porto vecchio. Le graziose barche blu, le reti adagiate sul molo, l’anziano cantore in cerca di innamorati, dipingono un ritratto che tale sarebbe se non fosse animato dalla stanca quotidianità.

E’ bianca Polignano a mare, alla quale più che il mare fa da contrasto il dipinto blu di Domenico Modugno, celebrato orgoglio cittadino.

A elevarsi, anche per importanza politica è la citta di Bari, la Bari vecchia in particolare, riscattata alla criminalità e trasformata in nobile attrazione del sud.

Effluvi culinari e di bucato si diffondono tenaci nel reticolo cittadino.

Che facete a pranzo, signo’?” Chiede il passante a una signora impegnata nella vendita e nella preparazione del pranzo. “‘U brodo!” risponde lei, deludendone le aspettative. 

Una testimonianza della veracità barese, della sua anima popolare, che si replica nelle botteghe e nelle banchine portuali,  Nderr La’Lanz, dove si assiste alla pratica dell’arricciatura del polpo.

Un romanticismo truce che si stempera nella più innocua e vivace via delle orecchiette, via dell’arco basso. Porte aperte, ventilatori e banchi espositivi offrono ai passanti l’arte delle matrone baresi.

Autentica  prelibatezza della cucina locale – con la rinomata focaccia, le cime di rapa, le fritture e i celebri  panzerotti -,  la città si rivela golosa per il palato ma letale per i parametri cardiovascolari. Il panzerotto in particolare, involucro delle più grasse conoscenze gastronomiche.

Tu devi mangiarlo stracciatella e pomodori secchi; dopo quello solo il buio sta’!“, mi dice Zazà,  fornaio di Bari vecchia.

C’è infine Matera, la Basilicata, prima pietra del viaggio. Alla rinnovata magia dei luoghi, alla roccia che prende forma e si fa città, si oppone l’indegna aggressione dell’architettura rupestre, bonificata e trasformata fino allo snaturamento.

Dove un tempo sorgevano i ricoveri pastorali, le abitazioni contadine raccontate nella denuncia di Levi, si sviluppano oggi locali eleganti e facoltosi,  a loro modo attrazioni per le visite guidate.

Dove un tempo convogliavano i grabiglioni, incubatori di epidemie e infezioni, sorgono oggi raffinati alloggi, saune e orientamenti vocati alla nuova filosofia alberghiera.

La guida tradisce un certo imbarazzo quando gli chiedo se i proprietari delle strutture riqualificate siano Materani.

Per le umiliazioni del passato, o per l’atavica diffidenza verso le istituzioni, l’impressione è che Matera abbia immolato l’identità sull’altare del benessere. “Matera non è Basilicata“, mi risponde un ragazzo sorpreso dal mio interesse per la sua regione.

Percorsi ispirati più ai passaggi cinematografici e delle celebrità che alla storia lucana, scaltri s’intersecano con il negozio dell’amico, l’artigianato dell’amico, il ristorante dell’amico.

Ma dopo tutto, deposta l’onta della nazione, arroventata la fornace della rinascita, cosa volere di più dalla vita?



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Sinner, il sardo

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Il cane dell’ortolano

Sembrano ispirarsi più alla drammaturgia spagnola che alle sorti della Regione, lacerata da consumate alchimie elettorali, le iniziative che accompagnano la classe politica teresina al voto. Come il cane dell’ortolano, che non mangia né lascia gli altri mangiare, la generosa proposta di nomi e simboli rischia infatti di prosciugare le già aride risorse locali, sottraendo…

Gigi Riva

La storia di Gigi Riva è una storia di calcio in cui il calcio diventa marginale. E’ una storia di gratitudine, di verticalità morale, di passione. Non esiste sardo che, pur non avendo vissuto la sua grandezza sportiva, non lo abbia amato o non abbia almeno un aneddoto da ricordare: la sciarpa di un padre,…

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Plis, visit Santa Teresa

Fondata in the 1808 dal King Vittorio Emanuele first di Savoia e intitolata alla wife Maria Teresa d’Austria, Santa Teresa is one of the most famous località in the north Sardegna; perfect destination for anyone who loves ciattuli as well as the clear blue sea.

Eleganti buildings dai pastel colors si alternano walking down National Street. The main square, fulcro della citylife, è gradevolmente animata – before coprifuoco at 10 o’ clock – fra appetizers, eventi and live music.

But il mare is the very protagonista of Santa Teresa Gallura, place of circa five thousand abitanti.

La popolazione locale è signorile e cortese. The experience, tuttavia,  recommend don’t use  a Santa Teresa l’italica espressione “you don’t know who I am! “.  To violate this rule is very dangerous. A native, in this case,  could answer: ” Hush! Hush! This asshole has to tell us who he is!

Going down to the mare, dal quale mai an athlete is landed, si giunge alla Longosardo tower, edificata per volere di Filippo II di Spain. E’ la largest tower edificata dagli spagnoli in Sardinia.

L’abitato develops along two insenature: Porto Longone a oriente, white sand bay to the west. Many times insignita with l’iconica Blue flag, sinonimo di clean coastlines and transparent seawater.

Around the borgo, Marble Instalment Beach, Elderberry Cove, Bad Boat Bay, Saint Reparata Bay and Aunt Culumba Beach rendono esclusivo il luogo.

Nel rinomato promontorio di Head Cape, punta settentrionale dell’isle, le prestigiose spiagge di Rena di West and Rena di East, on the road leading to the lighhouse, esaltano i panorami di Prickly Cove e le  carved cliffs della Moon Valley.

The landscape ha for a long time ospitato il prestigioso festival jazz  “Musica on the Mouths” del celebre artista Broad Beans Soup.

Plis, visit Santa Teresa Gallura.


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Il tacco Bianco

C’è qualcosa di calviniano nelle città della Puglia, nel bianco lucente che resiste al tempo e alle contaminazioni. E’ bianca Altamura, terra di frontiera tra Puglia e Basilicata, teatro di una vivace contesa con la città di Matera sull’arte del pane. E’ bianca Ostuni, dove dimesse insegne novembrine richiamano la memoria di un’estate felice. E’…

Paraculopatici

Che sul campionato di calcio tirasse una brutta aria, lo si era intuito dal cognome del principale indagato. Che la categoria dei calciatori non brillasse per sobrietà e acume non sorprende. Che Fabrizio Corona si alimentasse di scandali e indignazione popolare, più che palese era scientifico. In attesa che l’inchiesta riveli nuovi profili, che le…

La tregua amata

Se per comprendere un fenomeno sono essenziali intuito e osservazione critica, sovente oscurati da verità sartoriali, la radicalizzazione della crisi israelo-palestinese, sembra deporre più a favore dei teorici da bar che di esimi analisti. Ne deriva che ogni profuso sforzo interpretativo, evocando i motti del passato, più che difficile si rivela inutile. Tanto più se…

A casin’ ‘e Pompu

Superata la meridiana di Oristano, esplorando le arterie che dalla statale 131 immettono nella Sardegna più remota, silenzioso si rivela un panorama di desolazione, pascoli, terre coltivate.

Logori cartelli indicano luoghi il cui nome mi è ignoto o quasi; annunciano distanze illusorie e si contendono i viandanti esaltando le grazie del territorio: il pane, il fiume, i murales.

I paesi somigliano a un set di Sergio Leone, campanili e spaziose piazze centrali si affacciano sulla pianura. Una calda brezza ci spinge lungo le strette vie interne. Serrati si scorgono l’ufficio postale e la stazione dei Carabinieri.

Medio Campidano, punto di congiunzione tra Marmilla e Trexenta.

Dopo una deviazione a Furtei, che brilla più nella trachite della chiesa di Santa Barbara che nello svanito miraggio aureo, attraversiamo Segariu. Sulla strada per Orroli, fuori programma, impreziosisce l’itinerario la tappa a Villamar: il paese fu riscattato nel 1839 con l’abolizione del sistema feudale.

Il doppio campanile romanico della chiesa di San Pietro e le tipiche costruzioni in ladiri – i mattoni in terra cruda ottenuti dall’impasto di fango, acqua e paglia – solcano le orme del tempo.

Arriviamo a Orroli nel tardo pomeriggio. Al bar scorrono generose le caraffe di birra. E’ un giorno di festa. L’attenzione cade sulla cangiante livrea di un ragazzo appena maggiorenne; come un croupier si muove tra i tavoli apparecchiati verificando l’andamento delle gare di murra e delle tollerate bische.

Un’illusione che licenzia attimi di vivacità prima di restituire il paese all’agonia di luoghi che seppur desolati vantano una mirabile conservazione. Un’ordinanza sindacale vieta il transito ai cavalli.

La prossimità con il lago fa di Orroli una meta ideale per immergersi nella valle del Flumendosa. A bordo di un battello in stile Mississipi, spinto da caratteristiche ruote a pala, l’escursione rivela panorami per me nuovi, interrotti alle spalle del Nuraghe Arrubiu dall’imponente diga.

La vivacità affabulatoria del comandante accompagna la navigazione tra gole rocciose e piane fiancheggiate dalla vegetazione fluviale, scoprendo conche ora rocciose ora ciottolose ora sabbiose.

Il tempo rimanente è un ricamo di curiosità, facce, cortesie.

Il bambino di Villanova Tulo, che ci nega il permesso di accedere al cortile della parrocchia; la signora di Mandas, che ci dà il benvenuto e ci chiede cosa ci ha portato ad abbandonare i bei luoghi da cui arriviamo per le terre del Duca; il sindaco di Mandas, che spiega le origini de sa perda ‘e sa bregungia all’ingresso della chiesa; lo stupore visitando Casa Zapata e il complesso Su Nuraxi a Barumini; i variopinti filari floreali a Turri

Tutto avvolto da un senso di distanze percorse e ancora da percorrere; perdizione che nessun luogo poteva meglio rappresentare della deviazione per Pompu.


Nota: il corsivo evidenzia le descrizioni fedelmente mutuate dal sito specializzato.


  1. Mia nonna diceva: perché bisticciare per un pallone, non possono dargliene uno a ciuscuno?

  2. Ogni volta che mi sento. In colpa per.unz menzogna.

  3. Un partigiano come Presidente, forse il popolo non se l’è meritato…ma nemmeno Toto Cuttugno.

Un ottobre fa

Se potessimo riportare le lancette indietro di un anno, gli eventi ci catapulterebbero in una giornata elettorale con Giorgia Meloni che furente infiamma le folle denunciando inarrestabili ondate migratorie, il ragguardevole costo dei carburanti, le equivoche tendenze sessuali che, ostacolando la famiglia tradizionale, starebbero neutralizzando la maschia robustezza italica. E’ durante un incontro politico che…

Adesso lo scrivo su Facebook

Se in un tempo remoto, a tutela di un’ingiustizia o di una calunnia, era buona abitudine rivolgersi al maresciallo o al magistrato, da quando il metro digitale si è sostituito al diritto, e alle buone maniere, un pratico metodo si è imposto a usi e consuetudini: “adesso lo scrivo su Facebook”. Una procedura sommaria che…

La sindrome di Calboni

La proposta del Ministro dei Trasporti di sanare piccole irregolarità architettoniche, edilizie e urbanistiche, profila per il Governo Meloni il quindicesimo condono in nove mesi. Fuori da pretestuosi rilievi polemici, che miseramente prosperano nel belpaese sorridente, gli osservatori più critici fanno tuttavia notare che Matteo Salvini, affermando lo stesso principio -il rispetto della legge -…

Il silenzio dei preparativi

E’ l’ennesima giornata rovente di un’estate che non conosce fine, solcata dalla terra arida dei vigneti, ai quali solo le brume del mattino hanno concesso tregua, e dal silenzio sinistro del pomeriggio. E’ il preludio della festa.

Gli sposi non arrivano trainati dal carro a buoi, come vorrebbe la tradizione, ma preceduti da orde di viandanti assetati, inaugurando una via di peregrinazione che fonde sacralità liturgica e libagioni di ispirazione biblica, che nella narrazione secolarizzata non sono israeliti in fuga dall’esercito del faraone,  ma fidanzate e mogli  che, nell’insano sforzo di trascinare in chiesa i consorti,  sono travolte   dal mar rosso.

Campari, vino, birra si estendono a perdita d’occhio dai bar prospicienti la chiesa di San Sebastiano fino alla sala del ricevimento, in una processione di brindisi, balli e canti che plasmano l’identità del paese, suonando eretici sopra un certo meridiano. Spiegare il matrimonio berchiddese a un lombardo sarebbe inutile, non coglierebbe le differenze con l’EXPO.

La tipicità della cerimonia è intanto nelle proporzioni,  raramente scende sotto i mille invitati. La partecipazione, almeno per gli abitanti del luogo, non richiede un invito formale; è invece buona norma inviarlo a chi arriva da fuori o non vive più in paese.

Non meno affascinanti sono le regole che disciplinano l’obolo. Ogni famiglia all’interno della quale sia celebrato un matrimonio – generalmente  più sfarzoso quando a sposarsi è il primogenito – detiene un registro nel quale sono annotati  i nomi e  cognomi dei donanti e i valori da essi corrisposti,  che dovranno essere restituiti in eguale misura quando l’invito sarà ricambiato.

Chi raccoglie partecipazioni che non prevede di ricambiare nel breve periodo,  si predispone  alla procedura d’infrazione per sforamento del rapporto deficit-PIL

Il rito  si cadenza in due giorni. Il sabato è il giorno solenne, quello della cerimonia religiosa, dove non è insolito che gambe poche ore prima genuflesse davanti all’altare si disinibiscano in gloria a un’altra Maria, quella del pasito pa’ lante.   «Berchidda è un paese di vino e di ballo», mi dice un attempato signore separatosi dalla moglie per riprendere fiato.

Se il sabato è il giorno solenne, la domenica declina i cerimoniali a favore di un’atmosfera più raccolta, intima, e nella misura in cui possa definirsi intimo un pranzo con quattrocento persone, il banchetto è animato dalla narrazione di sbornie epiche e dal rimpianto per le battute di caccia annullate.

Così, tra il rumore di piatti che si infrangono,  il fragore delle risate e la promessa di rivedersi presto,  le luci si abbassano e si rientra gradualmente nella normalità; ma non prima  che il musicista delizi gli astanti con una disinvolta evoluzione da rose rosse a Simpathy for the devil, della quale,  a distanza di una settimana, ancora mi sfugge la relazione. Ma poco importa.

Evviva  gli sposi!

 

Cerimonia originale, strano tipo di festa,
la folla ci guardava gli occhi fuori dalla testa
eravamo osservati dalla gente civile
che mai aveva visto matrimoni in quello stile.

Fabrizio De Andrè

 

 

 


Questo racconto è in parte frutto dell’immaginazione. In parte. Nel senso che il faraone e gli israeliani, per esempio, non c’erano. Ogni ulteriore riferimento a persone e fatti reali non è affatto casuale. Vi ho visti.

«La chiesa è vicina, il bar è lontano, la strada è ghiacciata: camminerò con attenzione».
Proverbio russo

 

 

 

 

Il mio paese

La bruma mattutina si è appena dissolta, gli anziani fanno salotto in piazza. E’ una bella giornata.

Mi trovo a Terralba, il mio paese d’origine. Cammino senza meta, vago, ammiro lo stato di conservazione del paese. Le visite fugaci raramente mi concedono tempo per fermarmi, guardare, ricordare. Mi capita di incontrare uno zio, di incrociarne lo sguardo, non riconoscerlo e non essere riconosciuto.

Qui venivo a comprare la merenda prima di entrare a scuola – sussurro.

Mi perdo nei vicoli, mi fermo davanti a vecchi ruderi coperti dall’eternit, fotografo i portali. Dalle serrande socchiuse esalano odori di mosto e di ortaggi, profumi d’autunno.

Osservo le persone. Scorgo la curiosità di gente poco abituata al turismo, sorpresa del fatto che qualcuno trovi interessanti le mura pericolanti di una casa o un cortile abbandonato. «Le piace questa zona?» mi chiedono mentre fotografo la casa in cui è nato mio padre e abitavano i miei nonni. Gli sguardi incuriositi indagano alla ricerca di somiglianze parentali. «E chi era suo nonno?».

Ci sono gli animali che ostinati popolano le vie abbandonate dall’uomo. Un gatto mi osserva incuriosito dalla soglia di una porta sfondata; mi accorgo di essere affiancato da un cane che mi scorta lungo via Rossini, nei pressi del cimitero. Carezzo le facciate, sfioro i muri, tocco i cancelli. Passo davanti a casa di una zia. Pochi metri più avanti, da una persiana chiusa, proviene della musica pesante. Il genere che da quella stessa persiana sentivo da bambino, quando andavo a salutare mio cugino.

Giungo all’ingresso del cimitero. Entro. Mi oriento alla ricerca dei miei nonni. Li trovo. Accarezzo le foto, le lapidi, i caratteri dei loro nomi in rilievo. Mani da impiegato che oltraggiano la ruvidezza contadina di chi ha vissuto curvo nei campi.  Avevo solo quattro anni quando è morto, ma ancora ricordo le mani da zappaterra di nonno Pietro, tanto duro nei tratti somatici quanto amorevole nel raccogliere il fico d’india che a fine giornata mi portava in dono. Più delicata la memoria dei nonni paterni.

Ripenso divertito alla mia ultima conversazione telefonica con nonno Emilio. Lui a Terralba, noi a Santa Teresa.

Ciao Nonno, come stai?
Nonnu è accanta accanta a sidda pigai in cu’.

Avrà avuto un presagio. Fatto sta che il giorno seguente il suo cuore ha smesso di battere.

E’ quasi ora di pranzo quando riprendo la via di casa. Se non fosse per il viavai di biciclette, le strade sarebbero vuote. Il pensiero vola a Santa Teresa, al turbamento di un paese che non ha spalle abbastanza robuste per sopportare le tragedie.

Sono passate poche ore e già si avverte la sua mancanza, il suo impeto baritonale, la sua risata, esplosiva come i motori che davanti alla chiesa acuiscono un vuoto che tarderà a diradarsi.

Per lui era tutto superlativo. Era tutto grande, mitico, massiccio, bello, buono, veloce. Per lui non si poteva provare antipatia, non si poteva non volergli bene. Il suo sorriso era stampato come gli schiaffi che adesso gli darei per l’imprudenza che scherzosamente gli rimproveravo. Anche davanti a Dio, ne sono certo, non si formalizzerà, e agli angeli non insegnerà un bel niente. Prospettandogli un’alternativa giocosa, riuscirà a traviarli, trascinandoli in qualche casino che li farà radiare dal paradiso.

Massiccio.


Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”.
Cesare Pavese, La luna e i falò.

Il paese di Capossela

Una distesa ammirata dal finestrino di un treno trainato da un trattore.

Tra sussurrate  evocazioni western e canti popolari, è la stramba immagine tratteggiata dal mio cervello dopo il primo ascolto di canzoni della cupa, l’ultimo monumento di Vinicio Capossela, l’istrionico macchinista che in questa visione onirica segue a rimorchio una trattrice agricola guidata da Ennio Morricone.

Un viaggio che si inerpica lungo rilievi rocciosi e ridiscende costeggiando stagni e coltivazioni di grano per poi smarrirsi nei vicoli di qualche remota contrada, dove a fine giornata si fa baldoria e si da requie ai sensi. E poco importa se la terra d’ispirazione è l’ irpinia, perché nelle viscere c’è molta sardegna, c’è molto campidano, c’è il sud.

Se balene, profeti e marinai ci aveva inabissati e cullati con Pryntyl nel corpo di ballo del balletto delle onde, canzoni della cupa (la cupa è il lato della rupe in cui si sta in ombra e si annidano le creature che rifuggono dalla luce) ci riallaccia alla terra, all’essenza dell’uomo, fatto di polvere e ombra.

E’ un’opera divisa in due parti: il primo volume [polvere] esalta la liturgia contadina, il fascino rurale, ricamato da mani lorde e stivali affondati nella merda dei pollai. Il secondo [ombra] è più intimo, notturno, caposseliano direi. Non a caso è il brano la notte è bella da soli a sollevare la polvere e a soffiarla verso l’ombra.

Una piccola Spoon River, insomma, meno luttuosa (anche se il tema del lutto non manca), che racconta personaggi, principalmente femminili, ognuno immaginato ma a suo modo autentico, irretito in una forza centripeta che raccoglie aneddoti, testimonianze, presagi e li restituisce al paese. Perché – dice Capossela – “a forza di accendere luci sulle cose abbiamo perso per strada l’immaginazione, la dimensione smisurata delle cose.”

Abbandoniamoci allora nelle malestrade pisciate dal diavolo, che sotto le luci di luna si popolano di licantropi, masciare, castellane schiamazzanti e cornuti. E Se il racconto vi turba seguite l’asino, saprà indicarvi la piu corta via di casa.