Parola di un ipocrita

Indagando la composita sfera di parenti, amici, conoscenti, è raro scorgere persone che abbiano mai fatto ammissione della propria ipocrisia.

Il quesito sorge allora spontaneo: se l’ipocrisia è tanto diffusa e radicata, perché ostracizzarla? Perché non annoverarla tra le sane manifestazioni dell’animo umano? Ha davvero senso indignarsi, dissimulare, se nessuno può dirsi immune?

Passaggio obbligatorio per accreditarsi in società, negli ambienti ludici e professionali, ogni occasione è legittima per stigmatizzarla.

I tratti distintivi sono ben definiti: si ripete nel tempo e riguarda sempre gli altri, mai l’interlocutore. Nel paradigma consolidato, all’ipocrita sovente si accompagna chi, con solenne franchezza, ostenta la sua attitudine a dire le cose in faccia.

Se non conoscete nessuno che presenti queste caratteristiche, probabilmente quella persona siete voi.

A parte le deleterie ripercussioni che la vita paesana subirebbe dalla sterilizzazione dell’ipocrisia, con il suo lascito di chiacchiere e pettegolezzi, mi chiedo se non sarebbe più onesto normalizzarla, diluirla nei rapporti sociali, stabilendo una misura oltre la quale censurarla.

Una sorta di principio omeopatico applicato.

Se ammettessimo a noi stessi di essere ipocriti, verrebbe probabilmente meno la connotazione negativa che per abitudine o stanca rassegnazione attribuiamo al fenomeno.

Parola di un ipocrita.


  1. Mia nonna diceva: perché bisticciare per un pallone, non possono dargliene uno a ciuscuno?

  2. Ogni volta che mi sento. In colpa per.unz menzogna.

  3. Un partigiano come Presidente, forse il popolo non se l’è meritato…ma nemmeno Toto Cuttugno.

La Putin Doll

La Putin Doll è una linea di bambole tutte simili, interscambiabili negli abiti e nei ruoli, commercializzata da Mattel Corporation  e ideata sul modello di una partigiana filorussa. Con accessori vendibili separatamente, è – secondo le contingenze – interscambiale con tratti identitari della politica filopalestinese, filoiraniana, filosiriana. Per venire incontro alla clientela più esigente, non ha…

Rutti

Abituati come siamo a esaltare l’autoreferenza di frettolosi interpreti digitali, abbiamo a tal punto smarrito la misura dell’arte da licenziare come stolto egocentrico uno dei più abili e corrosivi autori presenti sulla scena italiana. Autore di composizioni sopraffine e di scazzi memorabili, ha da solo nobilitato l’ultimo concerto del Primo maggio lanciando strali contro la…

Sabato antifascista

All’apparenza sembrava un sabato qualunque, di quelli che già profumano di domenica, di sveglie ritardate, di pigrizia pomeridiana. Ma non per tutti. Per Benito era il primo sabato antifascista. Così, dopo essersi lui medesimo dichiarato antifascista, Benito, alleggerito dalle funzioni corporali, si recò in cucina, accese i fornelli e avviò la preparazione del caffè dosato…

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Ogni volta

Ogni volta che esortiamo a non dare importanza
Ogni volta che ci rifiutiamo di comprendere uno stato emotivo
Ogni volta che incoraggiamo imprese impossibili
Ogni volta che ci sentiamo invincibili
Ogni volta che diciamo: “fregatene!
Ogni volta che umiliamo gli sconfitti
Ogni volta che facciamo pressione psicologica
Ogni volta che deridiamo chi soffre per amore
Ogni volta che: “l’hai visto quello?
Ogni volta che illudiamo qualcuno
Ogni volta che non diciamo: “mi dispiace!
Ogni volta che non ammettiamo di aver paura
Ogni volta che: “si vede che non scopa!
Ogni volta che imputiamo le nostre colpe alla società
Ogni volta che mentiamo con malizia
Ogni volta che: “i genitori non potevano non sapere
Ogni volta che non chiediamo aiuto per orgoglio
Ogni volta che vorremmo torturare l’assassino
Ogni volta che: “ma quanto sei handicappato?
Ogni volta che maltrattiamo un animale
Ogni volta che la vittima doveva capire
Ogni volta che: “se ci fossi stato io…
Ogni volta che non ci poniamo domande
Ogni volta che ostentiamo certezze
Ogni volta che: “ma perché non ti spari?”
Ogni volta che: “non capisci proprio un cazzo!
Ogni volta che attenuiamo una colpa
Ogni volta che diciamo: “arrangiati!
Ogni volta che giudichiamo le scelte degli altri.

Ogni volta la stessa storia.


Classificazione: 1 su 5.
  1. Mia nonna diceva: perché bisticciare per un pallone, non possono dargliene uno a ciuscuno?

  2. Ogni volta che mi sento. In colpa per.unz menzogna.

  3. Un partigiano come Presidente, forse il popolo non se l’è meritato…ma nemmeno Toto Cuttugno.

Parola di un ipocrita

Indagando la composita sfera di parenti, amici, conoscenti, è raro scorgere persone che abbiano mai fatto ammissione della propria ipocrisia. Il quesito sorge allora spontaneo: se l’ipocrisia è tanto diffusa e radicata, perché ostracizzarla? Perché non annoverarla tra le sane manifestazioni dell’animo umano? Ha davvero senso indignarsi, dissimulare, se nessuno può dirsi immune? Passaggio obbligatorio…

Sinner, il sardo

Ha preso il via nei sinuosi tornanti di Scala di Djokovic, che dalla centoTrentino immette a Sassari, il battesimo elettorale di Ghjuannik Sinner, nella sorpresa generale candidato alla Presidenza della Regione Sardegna. Atterrato a bordo di un Boeing 737-200 nello scalo di Isili, sede della compagnia di bandiera EasyliJet, ha salutato deferente il pubblico distribuendo…

Il cane dell’ortolano

Sembrano ispirarsi più alla drammaturgia spagnola che alle sorti della Regione, lacerata da consumate alchimie elettorali, le iniziative che accompagnano la classe politica teresina al voto. Come il cane dell’ortolano, che non mangia né lascia gli altri mangiare, la generosa proposta di nomi e simboli rischia infatti di prosciugare le già aride risorse locali, sottraendo…

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Non c’è personale

“Non c’è personale!” commentò il boss mafioso schiacciando nervosamente il sigaro toscano nel posacenere.

Non bastavano i mesi di chiusure, l’isolamento, il vertiginoso crollo del fatturato criminale; adesso doveva fare i conti con una nuova piaga: la carenza di personale. “Il problema esiste da sempre, il nostro è un lavoro di rinuncia, di sacrificio, e dopo mesi di restrizioni, sono pochi i ragazzi che decidono di mettersi in discussione. È dura trovare manodopera, soprattutto specializzata.”

“Molti hanno deciso di cambiare lavoro, le casse integrazioni, per non parlare di quelle di mogano, sono arrivate tardi; si è persa fiducia anche nel crimine. Eppure in alcune regioni siamo il più importante ammortizzatore sociale. In questo momento sto cercando un aiuto sicario, di quelli che ripuliscono la scena del delitto. Le lascio immaginare le difficoltà. E parliamo di un’occupazione per tutto l’anno, non solo per la stagione. Insomma, un’offerta che di questi tempi non si può rifiutare”.

“I giovani sono refrattari, non hanno più voglia di lavorare, questa è la verità. Ammorbano con geremiadi quotidiane sulla disoccupazione, ma, a conti fatti, il personale non si trova. Lo Stato ha esagerato con le misure assistenziali. Il reddito di cittadinanza in particolare.”

Ci sono anche organizzazioni che sfruttano il disagio sociale, non lo nego, ma non è la regola. Il dibattito è spesso suppurato da notizie false. Ma è altrettanto pacifico che quei pochi che manifestano interesse, pur non avendo esperienza, pretendono salari da professionisti. Ma sa quanti omicidi miseramente retribuiti ho dovuto fare io prima di diventare un rispettato capofamiglia? Quanti occultamenti di cadavere?! Nessuno vuol più mettersi in gioco. Si è perso il valore della gavetta, un dramma per un’istituzione rigidamente selettiva e meritocratica come cosa nostra.”

Niente di personale.

Classificazione: 1 su 5.

  1. Mia nonna diceva: perché bisticciare per un pallone, non possono dargliene uno a ciuscuno?

  2. Ogni volta che mi sento. In colpa per.unz menzogna.

  3. Un partigiano come Presidente, forse il popolo non se l’è meritato…ma nemmeno Toto Cuttugno.

Ogni volta

Ogni volta che esortiamo a non dare importanzaOgni volta che ci rifiutiamo di comprendere uno stato emotivoOgni volta che incoraggiamo imprese impossibiliOgni volta che ci sentiamo invincibiliOgni volta che diciamo: “fregatene!”Ogni volta che umiliamo gli sconfittiOgni volta che facciamo pressione psicologicaOgni volta che deridiamo chi soffre per amoreOgni volta che: “l’hai visto quello?”Ogni volta che…

Ballata del Giambruno

Questa è la vera storia del Giambrunoovverosia il cicisbeo presidenziale Una storia traumaturga e noir. Il Giambruno si innamoròPerdutamente e sessualmente di un’avvenente collega Ma scoprì che invece era una serpe, che dico serpe, un Riccio travestito da collega,E da questa unione nacque una creatura e la chiamarono Pietra.Ma una perfida gocciolina Subentrò nell’innaturale famiglia e…

Paraculopatici

Che sul campionato di calcio tirasse una brutta aria, lo si era intuito dal cognome del principale indagato. Che la categoria dei calciatori non brillasse per sobrietà e acume non sorprende. Che Fabrizio Corona si alimentasse di scandali e indignazione popolare, più che palese era scientifico. In attesa che l’inchiesta riveli nuovi profili, che le…

Terzo tempo

Una  piccola storia ignobile, direbbe Francesco Guccini, così solita e banale  che non meriterebbe  nemmeno due colonne su un giornale. E l’episodio di Trinità d’Agultu quelle colonne non le avrebbe meritate se l’ossessione di fare notizia non avesse inquinato il giornalismo.

L’ episodio degli atleti africani insultati durante l’incontro Trinità d’Agultu – Santa Teresa [seconda categoria], per quanto deplorevole, e per quanto sia impopolare affermarlo, lo inquadro in quella franchigia del male congenita all’agonismo, a quel furore che nulla ha da spartire  con l’odio razziale.

Se la mettiamo su questo piano, badate, dall’accusa di razzismo non esce vivo nessuno. Chi almeno una volta nella vita ha frequentato un campo di calcio o un  bar dello sport conosce le tensioni connaturate al tifo sportivo; situazioni estreme in cui anche un gesuita rimetterebbe in discussione i fondamentali della civiltà.

E’ un problema di educazione, non di odio. Gli africani di oggi  sono gli slavi di ieri, i rumeni, i napoletani, i sardi. Anche se l’insulto rivolto ai sardi si presta a un’analisi più elaborata, perché correlata a precisi fattori  endemici: una cosa è essere sardi di Lodè, altra è essere sardi di Orgosolo. L’offesa ha le sue sfumature.

L’argomento è comunque da maneggiare con cura, meglio se con una punta d’ironia, tanto più in  un momento in cui il razzismo fluttua nel pelago elettorale, con tratti di pericolosità associati alla mancanza di originalità. Come certi contributi giornalistici.

Come andiamo signora Paoloni?

Alla fine avevano tutti ragione. Aveva ragione Giolitti quando sosteneva che governare gli italiani non è impossibile, è inutile; aveva ragione chi affermava che la narrazione renziana non rappresentasse il paese reale; aveva ragione Gasparri a darmi dell’imbecille. Avevano tutti ragione.

Chi ne ha fatto le spese in prima persona è Matteo Renzi, il presidente del consiglio, che oltre alla fisiologica impopolarità che culmina sui governi paga la sua eccessiva esposizione. Possibile che Tyler Durden non gli abbia insegnato nulla? Il basso profilo era la prima regola del Fight Club.

Come ha fatto notare Fitoussi, quando il popolo è deluso – e quello italiano lo è a prescindere -, è naturale che se gli servi la possibilità di vendicarsi quello la coglie. Il quesito non è stato respinto da un’inedita sensibilità costituzionale, ma dall’offerta di un’imperdibile opportunità revanscista: abbattere chi ti governa.

Questo hanno voluto gli italiani: punire Matteo Renzi, fargli un dispetto. E siccome sono persuaso che quella riforma andasse nella giusta direzione, attendo che sia il tempo a decretare se nel paese dei 64 governi in 70 anni  il dispetto l’abbiano fatto al presidente o a loro stessi, che per assaporare un minuto di onnipotenza hanno consolidato il CNEL e il mantenimento delle prebende senatoriali, avverso le quali rammentavo ben altri sentimenti. Della ristrutturazione burocratica dello stato non importava niente a nessuno, l’obbiettivo era la persona, il dittatore dicevano.

L’errore c’è stato, è pacifico. I consensi plebiscitari sono una consuetudine a Pyongyang, non in Europa, tantomeno in Italia. La personalizzazione era un rischio,  Renzi ha voluto rischiare. Ha ignorato il declino del suo ascendente e la fluttuazione del consenso, che è volubile in condizioni di quiete, figuriamoci in una società rassegnata alla disoccupazione o, nella migliore delle ipotesi, alla precarietà.

L’ultimo rapporto Censis è impietoso. Una maledizione biblica che si allunga sul paese. Un esercito di giovani che per la prima volta – rileva il rapporto – sono più poveri dei loro nonni, e con un reddito inferiore rispetto ai coetanei dei primi anni novanta.

Incertezze che inevitabilmente si riverberano nei modelli sociali e culturali, con forte impatto nelle forme di convivenza. Il rapporto certifica che oggi in Italia vivono quasi cinque milioni di single, cresce il numero di genitori soli, crescono le libere unioni, diminuiscono le coppie sposate, diminuiscono  le coppie coniugate con figli, cala il ricorso alle cure sanitarie.

Il fatto politico è che molti rappresentanti del comitato per il NO, che hanno contribuito a massacrare questo paese, oggi si smarcano, si distinguono, come se questa condizione si fosse autogenerata. La colpa è sempre dell’ultimo che non spegne la luce.

Meglio allora abbassare il profilo, vegetare nell’incertezza perenne, muovendosi tra le maglie di una burocrazia pesante, delle false invalidità, dei contributi di disoccupazione indiscriminati , della corruzione, del “con la ricevuta o senza?”, perché fino a quando questo sistema non collasserà, potremo amorevolmente sbranarci, l’uno contro l’altro come granchi in una cesta. [1]

Attendiamo allora con rinnovata speranza il principiare di una nuova esperienza, la venuta del profeta, salvo poi affidarci al primo impostore, un professor Tersilli primario della clinica Villa Celeste, capace di regalarci nuove illusioni:

Come andiamo signora Paoloni?
Male.
Vede che migliora? Ieri ha detto “malissimo”!


“Mi assumo tutte le responsabilità della sconfitta. Volevo tagliare le poltrone, non ce l’ho fatta, e la poltrona che salta è la mia”. Matteo Renzi, 5 dicembre 2016.


[1] Apologo del giudice bandito , Sergio Atzeni.


Si può fare

Rapporto semiserio di quel che si può fare a Santa Teresa Gallura, indagando le timidezze e le ritrosie di una comunità che nella decantazione dell’inverno, inalando smodate quantità di protossido di azoto [1], offre un esilarante stimolo al dibattito locale. Deriva della quale sono indegno latore, io che nel discernere quel che si può facere da quel che non si può facere, mentre leggete, ho già rappresentato come nel mio paese, volendo, si possono licenziare concetti partoriti non da un giudizioso esame, ma dalla bizzarra intuizione di chi uccella il lettore combinando parole e nude astrazioni fermentate in una fumante guglia fecale.

Se hai perso il filo e il suo colore,
in questo giuoco di cose matte,
in rima ti sussurro o mio lettore,
che t’ho preso là, dove il sol non batte.

Di parole ho fatto sfoggio,
da giocoliere impenitente,
non cercar nel lume appoggio,
perché ho detto tutto, senza dir niente.

Passando in rassegna le chiacchierate cronache locali, talune nobilitate da dignità giornalistica, ho classificato in questo apocrifo zibaldone, verità apparenti e tratti identitari di Santa Teresa, l’ameno paesello che scruta fiero il mare, in attesa di un atleta che ancor non vuol sbarcare.


non si può ospitare il circo [ma in teoria non si potrebbe neanche divellere il materiale pubblicitario];
non si può realizzare un approdo a cala spinosa;
non si possono installare giochi gonfiabili nello specchio d’acqua antistante la spiaggia delle colonne romane;
non si può occupare la spiaggia lasciando gli ombrelloni incustoditi;
non si può criticare il paese. O meglio: non matura il diritto di critica chi, superando la nostra linea Maginot – la ultata – tempra la propria autoreferenza e presunte competenze organizzative, connotando negativamente l’intera popolazione. Diceva George Burns nel 1979: “È un peccato che le persone che sanno come far funzionare il paese siano troppo occupate a guidare taxi o a tagliare capelli.”


si possono commercializzare – in spiaggia o nelle aree deputate – prodotti contraffatti, purché i venditori siano muniti di tesserino;
si possono recintare porzioni panoramiche strategiche, trascurando l’impatto che esercitano agli occhi del visitatore; ignorando che se la magia è negli occhi di guarda, l’obbrobrio è meno selettivo, lo vedono tutti;
si può sventrare una folta area boschiva  per la realizzazione di una pedana asservita alla gestione di un bar;
si possono parcheggiare – per l’intera stagione – roulotte o veicoli a esse equiparati, nelle adiacenze del porto;
si possono erigere palazzine che occludono il buon senso ancor prima che il panorama. Beninteso, non mi riferisco alla struttura realizzata sulle ceneri del vecchio Hotel Bellavista. La descrizione presenta delle affinità, ma… Oh, cazzo! Vuoi vedere che nel subconscio stavo parlando proprio di quella?! Maledetto subconscio!

si possono cercare i pokemon. In tutti i luoghi, in tutti i lager.

 


[1] noto come gas esilarante

Feste belle al Dagabro’

Feste belle quelle dei Daga.

A tratti supercalifragilistichespiralidosa quella che l’altra sera ha animato il Dagabro’ dei fratelli Beerhouse. A dirigere l’orchestra le due simpatiche  canaglie Antonio e Cristian,  da ultimo coadiuvati da Paolo Muntoni, l’istrionico mattatore del cinematografo gallurese, incensato da pubblico e critica per il ruolo da protagonista ne Il Giardigniere, opera prima di Antonio Luna.

Non ci è dato sapere da quante lune meditavano una serata simile,  perché il tempo scorre anche per loro e sono tramontati i giorni in cui, da scapoli impenitenti, insinuavano letti già caldi d’amore, gloriandosi l’uno con l’esilarante imitazione della signora Vittoria; l’altro mettendo in scena gli insegnamenti di Enrico, il rude marinaio cresciuto all’ombra del capitano Braciola. Ma lo spartito adesso è cambiato, la musica la compongono le attuali consorti, abili a sottrarre i due barman all’agguerrita concorrenza di donne fameliche e prive di scrupoli.

A caratterizzare la febbrile serata,  un simposio di amici e conoscenti di ogni generazione che hanno accompagnato con eleganza il sorgere dell’alba. Ma a dirla tutta, prima e dopo cena, si è brindato in gran carriera, celebrando nel migliore dei modi il compleanno dei due fratelli Daga, per l’occasione più scorreggianti che mai; anche se in realtà nessuno dei due compiva gli anni.

L’euforia non ha risparmiato nessuno, senza distinzione di età, di sesso e di censo, declinando in un gioioso carnevale che alla frenesia della festa ha avvicendato momenti di romantica spensieratezza, intervallati dalle sofisticate selezioni musicali dei Country Cousins, astri nascenti dell’intrattenimento serale e stimati cultori della mai banale blasfemia del signor Tonino, che dal suo autorevole pulpito mai si perde in evoluzioni retoriche.

Ereditandone lo spirito buontempone, La Goletta è quindi risorta sotto il rinnovato vessilo del Dagabro’ Beerhouse, e nessuno ha avuto l’ardire di sottrarsi all’evento che, per il bel paesello di Santa Teresa Gallura sancisce il formale esordio della stagione turistica.

Attratti a tratti dall’affabilità dell’allegra combricola, giovani e meno giovani, turisti e meno turisti, zigoti ed eterozigoti, ai quali verosimilmente si uniranno gesuiti euclidei, inietteranno nuova linfa all’estate, per la quale gli organizzatori hanno stilato un calendario di venti eventi programmati per le venti del giorno venti di ogni mese. Il divertimento, insomma, è assicurato.

Grande l’aspettativa per i gesuiti euclidei che, vestiti come dei bonzi, sembrano disposti a tutto pur di entrare nella corte degli imperatori della dinastia dei Ming, da sempre sinonimo di classe, fascino, eleganza e desiderio di vivere con gioia per la pace e la salute in alto.

Ma torniamo all’altra sera. A fare gli onori di casa, naturalmente, i due fratelli Daga, Antonio e Cristian, assecondati dal sempre gagliardo Luca Marco Mario Francesco Alvaro. Ha aperto le danze un sontuoso aperitivo, servito con garbo e professionalità dallo splendido Daniele, il fratello maggiore. Daniele, indossando i veli trasparenti della dea bendaga, attingendo da una cornucopia, ha distribuito leccornie  di ogni natura.

Tra un brindisi e l’altro è stato un trionfo di onori e cori goliardici, che hanno visibilmente emozionato Antonio e Cristian, soprattutto Cristian.  A fine cena,  a corrompere i palati è stata  servita la classica torta celadoìo farcita dallo chef palermitano Gino.

Luciano Milut alla consolle ha accolto gli astanti, ma non prima di aver dato prova della sua maschia fisicità, eseguendo non venticinque, non ventisette, ma ben ventisei flessioni: tante quante gli anni che nessuno dei Daga ha compiuto; anche se sull’episodio ancora aleggia l’ombra del mistero.

Il fisarmonicista Martino Muzzeddu,  imbrigliato nel proverbiale fascino aglientese, si è cimentato con inaspettata maestria in classici balli latino-americani, coinvolgendo soprattutto le donne, prima di deprimersi con il sussurrato accenno  de la sedia di lillà di Alberto Fortis, proditoriamente suonata dai Country Cousins, pur di tenere a bada le sue prevedibili intemperanze.

A una certa ora meno un quarto,  la compagnia si è spostata in veranda, dove a dettare i ritmi della festa, sono intervenute  due autorevoli figure della movida costiera: lo speculatore finanziario Salvatore Chiodino e l’immobiliarista Gabriel Muntoni, sempre più chic tra una birra e l’altra.

Sono stati notati tra gli altri: Dave Ruda, reduce dalla partecipazione a un’omonima azienda biologica locale, il kobra, Pierpaolo, gli amici di Maria De Filippi, Fidel, Cumpaio Segundo, Sotomayor, Lino Padruba e la sua Jazz Band, Tarek Aziz, Arthur Ashe, Pavel Tonkov, I king Krimson, Edy Orioli, Frida Medici, Roger Milla, Donald Trump, Gianni Togni, Settimo Nizzi, Boateng e Mario Lavezzi. 

Di sicuro qualche altro notabile è stato dimenticato e ce ne scusiamo.

 


Un criminale modello

Lungi da erigere architetture morali o pedagogiche, ancora mi sfugge il raggio entro il quale un criminale possa agire prima di essere definito tale.

Capisco che in un paese come l’Italia, dove la pena ha certezza solo nei referti arbitrali del martedì, cogliere certe sfumature sia drammaticamente difficile, ma prima o poi una linea di demarcazione dovrà essere tracciata.

Riguardo a questa brutta storia – l’efferato delitto di Roma – non  esprimerò giudizi categorici. Non lo farò nei confronti dei padri che difendono i figli; non lo farò nei confronti di chi consuma sostanze stupefacenti; non lo farò nei confronti di chi queste sostanze le traffica;  non lo farò neppure nei confronti della cocaina. Non è indispensabile il mio parere per instillare nelle persone la consapevolezza del delirio provocato dalle droghe pesanti.

Ho tuttavia una curiosità. Pur capendo la condizione di un padre sconvolto dalla tragedia, ancora mi sorprende la convenzione di rappresentare i figli –  e qui il discorso riguarda un po’ tutti – come inossidabili modelli sociali. Conosco consumatori abituali di cocaina capaci di nefandezze inimaginabili per le proprie famiglie, che ignorano la possibilità di una condotta diversa da quella espressa nello spazio domestico. E’ forse un caso se le famiglie o i vicini di casa degli assassini sono sempre i primi a meravigliarsi di un fatto delittuoso? E’ possibile che non esista un cazzo di vicino capace di notare le stranezze dell’uomo a cui prima di sterminare la famiglia aveva prestato un pacco di zucchero?

Evidentemente no; anche se l’idea genitoriale di avere il controllo assoluto dei figli è pura utopia. Per questa ragione, espressioni come figlio modello dovrebbero essere messe fuori legge e sostituite dalla dicotomia persona normale- persona apparentemente normale. Le cazzate poi le facciamo o le abbiamo fatte tutti. E in ogni caso, è l’entità della cazzata a fare la differenza.

La mattanza di via Giordani, che non è ragionevolmente derubricabile a una leggerezza qualsiasi, non ammette indulgenza, ma è emblematica delle alterazioni che  neutralizzano il rapporto genitori-figli.

Il genitore dell’ assassino poteva forse immaginare che quell’aberrazione genetica che non si imbarazza a chiamare figlio stava premeditando un omicidio? Perché di questo si è trattato. Dopo due giorni connotati dall’assunzione prolungata di alcol e cocaina,  gli assassini di Luca Varani, ansiosi di sublimare l’eccitazione del vuoto, hanno stordito la vittima con un martello e una mistura di farmaci e metadone,  gli hanno reciso le corde vocali per impedirgli di urlare e gli hanno conficcato un coltello nel cuore. Tanto basterebbe a provocare conati di vomito se gli assassini non avessero anche dormito nella camera accanto a quella che ospitava il cadavere.

Eppure il signor Foffo continua a non capacitarsi di quel figlio. Quel ragazzo modello, quel ragazzo contrario alla violenza, quel ragazzo del quale non sapeva niente e del quale, in questo abisso senza fondo, ora sa tutto.

 

 

 

Tutti giù per terra

L’industria pesante della propaganda ha già azionato le turbine, ma il fenomeno è troppo complesso, poco cartesiano, per essere fagocitato nel verminaio dei luoghi comuni. Non esiste un nemico preciso,  non esiste un alveo geografico, non esiste un obiettivo definito.

Concetti come occidente e musulmano hanno la consistenza della diluizione omeopatica. L’assenza di territorialità è una arma che alimenta le incognite: preclude la definizione di una strategia militare, preclude l’identificazione lombrosiana del nemico. L’attentatore potrebbe essere chiunque: potrebbe essere il fondamentalista militarmente equipaggiato come potrebbe essere la persona accanto alla quale hai appena bevuto il caffè.

Il fondamentalismo non ha una simmetria. Non esiste un carro armato che abbatte i confini con il seguito di milizie e artiglierie. L’arma non si vede, si può solo sentire. Si chiama paura.

Ha smembrato le regole della statistica. Un tempo, logorandoci nel calcolo delle probabilità,  dicevamo: “il luogo dell’attentato è  il più sicuro, perché monitorato”. Così pensavamo di Parigi, funestata pochi mesi fa dall’assalto alla redazione di Charlie Hebdo.

Non esiste un depositario dell’interpretazione autentica, tutti hanno ragione, tutti hanno torto. Tutti hanno il morto.

E’ una danza macabra ballata sulle arie dell’incertezza.

Sotto Marino [il giallo]

Che Marino per agevolare le torbide manovre dei suoi detrattori ce l’abbia messa tutta, è pacifico. Che l’uomo fosse inviso a pleaidi dell’affarismo capitolino, e non trascurabili segmenti del suo partito, è clinicamente testato. Che il sindaco dimissionario fosse responsabile di ogni calamità romana è invece opinabile. Perché fatta eccezione per le cavallette di John Belushi e la deriva dei continenti, gli hanno addebitato praticamente tutto.

A un certo punto pareva uno di quei socialisti tratteggiati da Chuchill, dei quali diceva: sono come Cristoforo Colombo: partono senza sapere dove vanno. Quando arrivano non sanno dove sono. Tutto questo con i soldi degli altri.

Ora, che Marino fosse partito senza sapere dove andasse lo si era intuito dal parcheggio della famigerata panda rossa. Che non sapesse dove si trovasse lo testimonia la pervicace prosecuzione delle vacanze durante il commissariamento del comune. Che la carta di credito del Campidoglio fosse utilizzata per fini non proprio istituzionali lo certifica lo scandalo scontrini. Nessun ambasciatore del Vietnam, nessun sindaco di Philadelphia. Niente. Se poi, come dicono a Roma, rompi er cazzo pur ar papa e non ti chiami Onofrio del grillo, è la fine.

Di certo, la furia devastatrice propagatasi nei suoi confronti non ha  precedenti in un paese civile. Ma l’Italia, che di civile ha solo qualche rito nuziale, ha accompagnato all’uscio un Marino recalcitrante. Lo stesso che adorno di alloro e zainetto  aveva trionfalmente marciato sulle macerie dell’amministrazione Alemanno.

Poi, d’improvviso, Marino è diventato un caso. Un giallo. L’indignazione è stata trasversale e ha solidificato un assunto che il compianto Vujadin Boskov avrebbe espresso in queste forme: quando fatto essere commesso da altri tu criticare, quanto tu fare stronzate tutto bene.

Perché se è vero che Marino ha inanellato una serie di comportamenti di dubbia moralità, è altrettanto vero che il pulpito dal quale giungono gli strali non è candido come la predica lascerebbe presumere. Se il problema è solo Marino, e non chi sta sotto Marino (cioè noi), perché di cotanta indignazione non rimane traccia quando, accanendoci sulle risorse dello stato, elemosiniamo sussidi assistenziali che contrastano con il nostro tenore di vita?

Prendiamo i contributi disoccupazionali, per esempio. Oramai non rappresentano più uno strumento a sostegno di chi ha perso il lavoro, ma un premeditato succedaneo dello stipendio. L’obbiettivo non è più l’occupazione, ma il raggiungimento dei giorni necessari per il riconoscimento dell’indennità. Da noi non vige un istituto analogo a quello Svizzero, che impone al disoccupato di provare la ricerca di un’occupazione e contestualmente di accettare ogni soluzione adeguata.

E dell’edilizia popolare ne vogliamo parlare? Se acquisto un immobile beneficiando del sistema dell’edilizia agevolata, quindi favorendo di contributi pubblici tesi a ridurre il costo dell’acquisto della prima casa o l’abbattimento del tasso d’interesse di un mutuo acceso per lo stesso fine, posso io dare del ladro all’amministratore di turno o a Marino? No, fratello, non possiamo. Nella migliore delle ipotesi, possiamo sederci con lui e guardandolo negli occhi domandargli: cosa ti bevi? Ammesso che sia avanzata qualche bottiglia.

Insomma, prima di indignarci, interroghiamo il Marino che c’è in noi? Tutti quanti, compreso il papa, che  – sempre secondo il giallo, inteso come genere letterario – sembra più interessato, e per questo interferente, agli affari della Roma politica che ai dilaganti casi di pedofilia che ammorbano la sua chiesa.

Gli elementi ci sono tutti: un utile idiota, la politica, il clero.

Il giallo si infittisce.


[nota] I teorici del complotto  rammentano che Ignazio Marino durante il suo pur breve mandato (del quale non si esclude il ritorno) ha  imposto l’apertura pomeridiana degli uffici comunali, la rotazione dei vigili urbani e dei dirigenti comunali, nuove regole per gli appalti della Capitale, lo sfratto di camioncini-bar e bancarelle dall’area archeologica.