Parlate di Bibbiano

A Bibbiano una voragine ha inghiottito i quarantanovemilioni della Lega.
A Bibbiano i ministri si immortalano con lo smartphone durante i funerali.
A Bibbiano rimpinguano le casse con i fondi occulti russi.
A Bibbiano hanno abolito le accise sulla benzina.
A Bibbiano hanno abolito la povertà.
A Bibbiano uccidono i ministri con i missili.
A Bibbiano i ponti sono luoghi d’incontro.
A Bibbiano insegnano al papa come fare il papa.
A Bibbiano le ragazze vanno in tribunale senza reggiseno.
A Bibbiano i giornalisti guardano le tette di chi va in tribunale.
A Bibbiano hanno rimpatriato seimila migranti, ma ne avevano promesso seicentomila.
A Bibbiano ci sono centocinquantotto crisi industriali.
A Bibbiano i dipendenti della pubblica amministrazione timbrano il cartellino e poi escono.
A Bibbiano il mandato zero è una rotatoria che ti riporta all’ingresso del paese.
A Bibbiano i migranti si respingono da soli.
A Bibbiano il ministro dell’interno ha sempre qualcosa di più importante da fare
A Bibbiano i No Tav sono Si Tav.

A Bibbiano gli omosessuali sono schifosi da ammazzare tutti.
A Bibbiano il sindaco è accusato di abuso d’ufficio.
A Bibbiano il ministro da sempre afferma di voler cancellare il reato di abuso d’ufficio.
A Bibbiano il partito di Bibbiano ha fatto una donazione alla onlus Hansel e Gretel.
A Bibbiano hanno portato via dalle famiglie i fratelli Grimm.
A Bibbiano le maschere sarde non devono essere mascherate.
A Bibbiano tra 2,4 e 2,04 non c’è differenza.
A Bibbiano chiamano elettroshock il comune elettrostimolatore.
A Bibbiano il Comune elettrostimolatore non ha un sindaco.
A Bibbiano se il ministro mente i suoi consensi aumentano.
A Bibbiano anche se conosci una persona da 25 anni potresti dimenticarti di averla conosciuta.
A Bibbiano fingono di bloccare 40 migranti per farne entrare 200.
A Bibbiano il presso del latte non è un euro.
A Bibbiano le parole del presidente al ministro interessano meno di zero. Come il mandato.
A Bibbiano gli striscioni che chiedono giustizia per Giulio Regeni sono antiestetici.
A Bibbiano il ministro fugge:
A Bibbiano oggi è 25 luglio.  Fa caldo. Via Mussolini è deserta.

Osteggiato da una stampa silente, ai limiti della connivenza, denuncio che Bibbiano è situato a 17 km a sud-ovest di Reggio nell’Emilia. Il territorio comunale, oltre che dal capoluogo, è formato dalle frazioni di Barco, Corniano, la Fossa, Ghiardo e Piazzola per un totale di 28,02 chilometri quadrati. Confina a nord con Cavriago, a est con Reggio nell’Emilia, a sud con Quattro Castella e San Polo d’Enza e a ovest con Montecchio Emilia.

Ecco, ho parlato di Bibbiano.

Merda da statista

Il primo piano su Luigi Di Maio che dal balcone di Palazzo Chigi annuncia di aver sconfitto la povertà è ancora vivo. Sembra trascorsa una vita, ma sono passati solo dieci giorni.

Luce selettiva sul viso, dilatazione delle pupille, fissità plastica rimbalzano allo spettatore il fotogramma mancante tra lo stilema Vanzinano che precipita sulla tavoletta del cesso e l’allucinata guida di Marion in Psycho.

Pochi secondi di finzione cinematografica, prima che la realtà si manifesti alla variopinta compagine circense. Se l’incontro fra il presidente delle BCE Draghi e Mattarella, il viaggio di Di Maio a Berlino, la visita di Fico a Junker, il crollo della borsa, l’impennata dello spread, avevano rivelato che qualcosa non stesse andando nella direzione auspicata, mai era accaduto che in sole ventiquattro ore una manovra fosse contemporaneamente stroncata da Bankitalia, Fondo Monetario Internazione, Corte dei Conti e ufficio parlamentare di Bilancio.

Così come non si ricorda un presidente di commissione che, nel corso della seduta, silenzia il microfono di un ministro, in debito di lucidità dopo un tenace intervento parlamentare. Ma ancor più inquietante è il verbo savoniano. Denota sozzura l’affermazione del ministro per gli affari europei, volto nobile del governo, quando dichiara: «Se ci sfugge lo spread la manovra deve cambiare. La BCE acquisti i titoli italiani.» Ma come?!

A fondovalle, incuranti dello scenario magmatico che sta per travolgerli, gli attori di uno spettacolo mediocre, con sadica voluttà, ostentano sicumera e stringono mani.

Nel frattempo, dalle remote fessure del tendone, cominciano a diffondersi odori sospetti, che non sono quelli del napalm al mattino. Afrori di derivazione organica che rimandano alla memoria la primavera del 1961, quando Piero Manzoni sigillò novanta barattoli di latta, identici a quelli per la carne in scatola, ai quali applicò un’etichetta con la scritta «merda d’artista. Contenuto netto gr. 30. Conservata al naturale. Prodotta ed inscatolata nel maggio 1961.»

Risvegli

Timidi segnali di risveglio. Talmente timidi da insinuare che la compostezza delle opposizioni riveli una strategia più sottile, volutamente attendista, germinata nella consapevolezza che nessun argomento può turbare la luna di miele tra i governanti e il popolo. Entrambi intesi nel senso più deteriore del termine.

Solo l’innamoramento può giustificare questo desolato vagare nelle lande della mistificazione, tanto più se anche la tragedia, il lutto, meschinamente incespicano nelle maglie del consenso.

Genova è solo l’ultimo palpito di questo ardore, l’ultimo pilone di un’imponente architettura.

Un’architettura denigratoria franata su un partito, il PD, sulle cui macerie è collassato, impetuoso, il sospetto di collusioni con i maggiorenti del gruppo Benetton, azionista di riferimento di Autostrade Per L’Italia. Un linciaggio a regola d’arte, nella cui fonte il governo confidava di abbeverarsi a lungo,  salvo scoprire che a percepire i finanziamenti dalla famiglia Benetton era la Lega di Matteo Salvini.

Matteo Salvini, il ministro virile, al quale gli atti della camera rammentano, come al marinaio di Coleridge,  il peccato del voto favorevole espresso nel 2008 (e nelle due successive sanatorie) al cosiddetto  decreto salva-Benetton, che svincolava i ricavi (della concessionaria) dall’obbligo di manutenzione voluto dal governo Prodi.

Il PD,  al quale si imputa – fra le altre cose – anche l’estinzione del leopardo dell’Amur e dell’elefante di Sumatra,  espresse voto contrario.

Il fatto dovrebbe generare, se non imbarazzo, almeno una manifestazione di sgomento, un sussulto nell’elettorato,  ma la fidelizzazione genera cecità. Come cieche sono le ragioni addotte a sua discolpa dal segretario leghista, quando afferma: «Invidio quanti si ricordano cos’hanno fatto dieci anni fa».

Una difesa tanto puerile che anche l’avvocato del popolo, a sua volta legale di AISCAT, papale papale, da omo a omo, nel segreto del palazzo gli avrà detto:«Matte’, ma che cazzo hai combinato? Qui te se ‘nculano, eh!».

Li vaccini

In un’epoca che s’usa
D’aprì bocca e nun dì gnente
C’è ‘nfenomeno vivente
Che fa Taverna e sta ‘ncambusa.

Ner movimento s’è svezzata
pe’ parlacce de vaccini
A daje smarto du’ bburini
Immunizzati c’a pajata.

A casa de zia che processione
dalla sera a la mattina
a parlà de medicina
pe’ infangà ‘ntal Burione.

Quanno grida è tutto un io
E de l’artri nun je frega
Strilla come Mario Brega
Ma è più colto er culo mio.

Ma dicevo de su zia
Che sette nipoti  se smugnava
E quanno uno se ammalava
Sai che  gran minchioneria.

Der senato è dottoressa
Ma è ‘n circense de talento
Lei te cura con ‘nunguento
Ma rompe ‘rcazzo e  nun l’ingessa.

Troppo il libbero pensiero
nun ce sta ‘na garanzia
Che se c’hai ‘na malatia
La ricetta è ar cimitero.

Nun ve pijate troppi affanni
E’ da mo che vo sto a dì
E a voi ‘mmerde der PD
Carci in culo e via i malanni.

Un Conte in cerca d’autore

Sbarcato da un cargo battente bandiera liberiana, si  è palesato Giuseppe Conte, 57 applausi in 72 minuti.  Perfetta sintesi di un accordo impossibile, di un ibrido che Di Maio e Salvini chiamano contratto per la vergogna di definirsi alleati.

Impacciato come il liceale che entri per la prima volta in un cinema a luci rosse,  il confuso presidente del consiglio, autoproclamatosi avvocato del popolo – come certi ricoverati che rivendicano discendenze napoleoniche – ha fornito una prima testimonianza della sua mediocrità politica.

Nelle venticinque pagine di intervento, soprattutto al senato, nessun riferimento alla scuola. Nessun riferimento al mezzogiorno. Nessun riferimento alle infrastrutture. Nessun riferimento alla legge Fornero. Deboli riferimenti alla sanità, nessuno ai vaccini. Per parlare in compenso di fantomatiche reti info-telepatiche; di misurazione con i dilemmi dell’intelligenza artificiale e – riporto testualmente – di utilizzo dei big data per cogliere tutte le opportunità della sharing economy; di revoca delle sanzioni applicate alla Russia;  di convinta partecipazione alla NATO; di esclusione di un piano per l’uscita dall’euro, che qualche problema ha generato nell’affaire Savona.

Assorbito in un coagulo di intenti che per la loro vaghezza sarebbe delittuoso non condividere, il presidente Conte sarà ricordato per le enunciazioni generiche. Parlare di attivazione di politiche per rilancio del sud, come lui ha fatto, non è un programma, è l’affermazione di un principio. Parlare di efficienza e qualità dei servizi, non è un programma, è l’affermazione di un principio. Sventolare la necessità di redistribuire il fisco secondo equità, non è un programma, è l’affermazione di un principio.

Se il proposito era quello di raccogliere applausi , un discinto W la Fica,  sussurrato con eleganza e senza fronzoli accademici,  gli avrebbe assicurato meno fatica e altrettanta gloria.

La superficialità dei capitoli economici e sociali, che si scontra con il malvezzo di operare nel rispetto delle coperture,  sembra invece trovare concretezza – ma fino a un certo punto – nel paragrafo sulla sicurezza, improntata più dalla propaganda del ministro dell’interno che dalla proposta di Conte.  Ministro dell’Interno capace in appena due giorni di generare una crisi diplomatica con la Tunisia e di tacere sulla barbara fucilazione del migrante sindacalista di Gioa Tauro.

Prenderemo i migliori cervelli per fare i ministri, annunciava tempo fa Luigi Di Maio. Poi ministro lo è diventato lui.  Lui che da piccolo sognava fare il pasticciere trotzkista.

 

 

Dove c’è ignoranza io prospero, e dunque darò fiducia a questo governo per osservarne il declino. [Vittorio Sgarbi]

 

 

 

 

Il buco del culo

Claudio Rinaldi, maestro del giornalismo italiano, un giorno disse: «Mai scrivere cosa c’è dietro? Perchè dietro c’è solo il buco del culo».

E’ in ossequio al maestro che non mi chiederò cosa nasconda il caso Savona; non alimenterò il sospetto che sia una strategia leghista tesa a erodere consensi al movimento cinquestelle, inaugurando l’inglorioso tramonto di Luigi Di Maio e il prematuro ritorno al voto con Salvini candidato primo ministro in un centrodestra ricompattato.

Conte non conta.

L’analisi del vuoto

Nella confusione del voto, pelago di osservazioni spesso peregrine, emergono con ferma autorevolezza tre fattori: l’atomizzazione della sinistra, il trionfo dei cinquestelle, l’affermazione della lega.

Da politica la questione diventa adesso antropologica. Fantasticando più sulle affinità che sui programmi, l’alleanza più naturale parrebbe quella fra Lega e Cinquestelle, che sulla rottura di paradigmi consolidati hanno edificato la propria fortuna. E’ tuttavia difficile immaginare un ruolo di subalternità tra Salvini e Di Maio, il cui apostolato sembra prevalere sulle sorti di un’Italia che fino a ieri descrivevano depressa e della quale, c’è da scommettere, a breve esalteranno le virtù.

Il «Dovranno parlare con noi» di Di Battista, pur essendo un passaggio politico naturale – sarebbe un crimine emarginare i cinquestelle – è il peggior modo di avviare un dialogo, tanto più per coloro che abiurando la vergogna delle alleanze dovranno cercare consensi altrove.

Impantanata nel guado, una sinistra dilaniata dal crollo dei consensi e dai conflitti interni. Una sinistra sulla quale pende la colpa biblica di non aver intercettato i segnali del malcoltento, ma anche la colpa nobile di aver rispettato gli accordi con l’europa. E’ naturale che se la battaglia elettorale si combatte sul pianerottolo di casa, con la fascinazione assistenzialista dei cinquestelle e l’esasperazione migratoria della lega, gli spazi si riducano.

Ma c’è un’altra colpa (grave): non aver coltivato un sano  antagonismo, modellando una figura alla quale affidare l’archiviazione dell’esperienza renziana, degenerata nella persuasione che l’impopolarità del segretario, passato dalla più alta gloria alle tenebre, fosse un fenomeno sporadico.

Se neanche adesso, con le dimissioni differite di Renzi, il PD riuscirà a elaborare una sintesi, al segretario  si dovrà comunque tributare un triplo merito:

-La convocazione del congresso per una resa dei conti definitiva, senza commissariamenti;
-La collocazione del partito democratico all’opposizione, senza assistenza a un ipotetico governo Di Maio;
-La riflessione sull’affaire Pesaro, dove un candidato ricusato per indegnità dal suo stesso partito ha prevalso contro un ministro meritoriamene apprezzato.

Chiedo: in questo caso di chi è la colpa? E’ colpa della tanto vituperata politica? E’ colpa di  Renzì? E’ colpa di Berlusconi? E’ colpa di Salvini? Quando parliamo ingiuriosamente di politici – perché noi adoriamo dire che i politici sono tutti ladri – scordiamo che il politico, sovente, è la proiezione del suo elettore: uno a cui dell’Italia, della regione, della provincia, del comune, del condominio non gliele frega una beata mazza. L’importante è stare comodi, magari evandendo il fisco.

Fatta questa premessa, che quasi collima con la conclusione, penso (e già questa è una notizia) che in una legislatura claudicante, intrisa di autoreferenza e personalismi, il PD avrà una  grande opportunità. L’opposizione è l’ecosistema ideale per riflettere, per ricostruire.

Conclusa la favola dell’antisistema, sopita l’ebbrezza della vittoria, crollato l’altare della propaganda, quando orde fameliche picchieranno la porta dei vincitori per riscuotere le prebende del reddito di cittadinanza o la tassazione al 15%; quando si scoprirà che l’uscita dell’euro non si tratta in dodici ore (come assicurava la Lega),  che i trattati europei non si strappano a piacimento, gli equilibri si ribalteranno.

Ci vorrà tutta l’abilità politica e geometrica del presidente Mattarella, la sua compostezza atarassica, per comporre una crisi annunciata. Un dramma nel dramma, a poche settimane dalla morte di Ingvar Kamprad, il fondatore di Ikea. Uno che di composizioni se ne intendeva.

 


«Perdere? Vuol dire non vincere al momento giusto». [Ciriaco De Mita]

 

 


Quando c’era lui, Luigi

Neanche il tempo di designarlo e già abbiamo nostalgia di lui, Luigi. Con quell’espressione da Mercoledì della famiglia Addams, ma con meno capelli, lui, Luigi, venuto al mondo nella Stalingrado del sud, è pronto a governare, a restituire alla repubblica la dignità usurpata da un parlamento che giurava di aprire come una scatoletta di tonno.

Proprio Lui, Luigi, un italiano qualunque. Senza esperienze lavorative, senza competenze, senza titoli, senza inglese, senza padroni. Sì, senza padroni, al plurale, perché padrone ne basta uno: Giuseppe Grillo, quello del  Five Club. Prima regola del Five Club: non si parla dell’amministrazione Five Club. Seconda regola del Five Club: non dovete parlare mai dell’amministrazione Five Club. Mai.

Lui, Luigi, l’essenza dell’assenza. Non si capisce se sia un predestinato, un miracolato da San Gennaro o  semplicemente un culone. Entrato alla camera – della quale è il vicepresidente –  con la miseria di 189 preferenze raccolte in un sondaggio in rete; oggi, legittimato dal 22% degli iscritti, si scopre a capo di un movimento più intestinale che di governo. Pochi i consensi reali, pochissimi, per ambizioni non incoraggiate da talenti specifici;  ma Luigi con le percentuali è Clemente;  nella sua terra  c’è gente che con gli zero virgola ha condizionato la politica italiana per anni.

Luigi, l’unto dal congiuntivo,  è un giovane  entusiasta, rassicurante, garbato; ma dietro quel sorriso da testimonial del cioccolato Kinder si nasconde un predatore del consenso. E’ venuto dal basso, dicono gli alleati. Troppo  in basso, rispondono i detrattori. Ma voi ve lo immaginate Di Maio che va a colloquio dalla Merkel? O la senatrice Lezzi che al consiglio di economia e finanza illustra come il caldo e la vendita dei climatizzatori  abbiano giustificato la crescita del PIL?

La giovane età in politica non è una qualità, è un dato statistico. La politica presuppone studio, formazione, competenze che l’individuo mette a disposizione della collettività. La politica non è una palestra; in politica devi arrivare già allenato.  Come può il ragazzino Di Maio – uno che non riesce a laurearsi in giurisprudenza – confrontarsi con un giurista, magari autore del manuale di un esame che non riesce a superare? Prendiamo un caso pratico: dovendovi sottoporre a un intervento chirurgico, affidereste la vostra sorte a un medico inesperto, preferendolo per il solo fatto di essere giovane?

Sembra profilarsi una nuova, ennesima, scappatella italiana nelle lande dell’illusione e dell’irresolutezza, quelle in cui sopravviveranno  l’imprenditoria della paura e la dinastia  del web, il non luogo fattosi rogo.

Luigi. Neanche il tempo di designarlo e già abbiamo nostalgia di lui; di quel tempo felice in cui  il  Venezuela era in Cile e i congiuntivi partivano in orario. Binario 5.

 

Enlarge your Renzi [io voto sì]

In un dibattito intriso di veleni elettorali e ambizioni alla Rodrigo Borgia, al momento, la discussione referendaria sembra smarrirsi  in un reticolo di tecnicismi e profili burocratici che non tutti, compreso qualche parlamentare, sono in grado di cogliere. Esemplare il caso di Matteo Salvini,  quello del vangelo apocrifo, tanto abile a disorientare il ministro dell’economia sul costo del latte, quanto analfabeta nella disamina della costituzione, della quale se ignora la composizione numerica figuriamoci quanto può conoscere il contenuto. Detto questo, a riprova che anche dal letame nascono i fior, avrei accolto con favore l’introduzione del vincolo di mandato proposto dalla lega.

Io, antirenziano, non sospettabile di genuflessioni ideologiche o simpatie presidenziali, voterò SI.  Con convinzione. Esticazzi! direte voi. E forse anch’io. Ma credo che la semplificazione del processo legislativo, spesso ingabbiato dalle speculazioni tattiche del bicameralismo paritario, non sia più rinviabile.

Il medesimo istituto referendario ne trarrebbe giovamento. Se la riforma venisse approvata, una legge di iniziativa popolare proposta da 800.000 cittadini [anziché 500.000], determinerebbe l’abbassamento del quorum e l’obbligo per il parlamento di prenderla in esame, conferendo all’iniziativa una maggiore connotazione democratica.

Proclamandosi paladini di una costituzione che in passato molti di essi hanno vilipeso, gli alfieri del no, traggono linfa più dal desiderio di squalificare politicamente il presidente del consiglio che dal naturale interesse  di salvaguardare il funzionamento dello stato. Constatare che un’autorevole rappresentanza di quanti oggi osteggiano la riforma abbia espresso parere favorevole nelle precedenti letture parlamentari,  costituisce più di un indizio sulle intenzioni covate, e  il paventato rischio di una deriva autoritaria in caso di affermazione del sì è tanto grottesco da non prestarsi a rilievi polemici.

C’è anche un altro fatto. Credo che nel suo peccato originale – la carenza di legittimazione popolare –  questo governo abbia nella eterogeneità una migliore prospettiva riformatrice. Una composizione rappresentativa di segmenti di centrosinistra e centrodestra, superando i tradizionali perimetri ideologici, ha margini di sintesi più ampi di quelli che hanno caratterizzato le fallimentari esperienze del  passato.

Una nota a margine la merita il caso della sardegna e il rischio di una sua deflorazione statutaria. Fermo restando che la riforma del titolo V non si applica alle regioni a statuto speciale, mi sorprende la levata di scudi a difesa di una sovranità il cui esercizio è stato finora piuttosto blando. Il declino della nostra regione si è consumato in regime di statuto speciale, ancor prima della venuta di Renzi.

Mi chiedo: perché dovremmo affossare una riforma che pone un argine agli sprechi, ai rimborsi dei consiglieri regionali e che rende operativa l’abolizione delle province? Province che nel sentimento popolare sono percepite più come strumento clientelare che come istituzione. Qual è l’interesse superiore?

La strategia è chiara. Il comitato per il NO, premendo la leva della paura, pubblicando sondaggi di dubbia origine, divulgando notizie false (l’articolo 138 della costituzione non è stato toccato dalla riforma, è quindi falso che l’approvazione del referendum sarà vincolante per i prossimi trent’anni),  aggredisce la debolezza degli italiani, sfiatando le flatulenze acrimoniose dei Brunetta, Gasparri, Salvini, D’Alema.

Ma poi, dico io,  volete la caduta di Renzi? Benissimo, desiderio legittimo. Quel che mi sfugge, in un ipotetico avvicendamento, è chi dovrebbe garantirci più di Renzi? Oggi l’alternativa chi è? L’ennesimo governo tecnico? Come la mia Inter, è un’Italia che cullando il sogno della resurrezione evapora tra i fumi di un’eterna rivoluzione.

Voterò sì. E lo farò anche perché tra un Bob Dylan che adduce motivazioni sterili per non ritirare il premio Nobel e un Brunetta che afferma di essere un Nobel mancato, consentitemelo, preferisco Dylan, che non c’entra nulla col referendum ma mi serviva per evidenziare la cifra stilistica di Brunetta, che comunque preferivo con i ricchi e poveri.

Insomma, voterò sì perchè la retorica del popolo non mi piace. Il popolo ragiona con la pancia, e la pancia, se molestata,  genera cattivi odori.

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Il numero cinque

Cinque dimissioni in un giorno, cinque stelle, cinque agosto [data di una misteriosa missiva inviata al direttorio], cinque settembre [giorno dell’audizione del sindaco Raggi e dell’assessore Muraro in commissione parlamentare di inchiesta sulle Ecomafie].

Un numero ricorrente per l’ultima indignazione estiva. Una notizia lieta per un paese che, proverbialmente,  sotto l’ombrellone non s’indigna.

Potrebbe essere una torbida trama di Joel Shumacher, regista de il numero 23, l’ossessionante thriller numerologico interpretato da Jim Carrey e dall’attrice  Virginia Madsen. Virginia.

Potrebbe essere un film; forse lo è. La  camera si sposta nella penombra di una sala d’attesa, seduta con le gambe incrociale c’è Virginia Raggi. Sepolto da una pila di quotidiani e riviste economiche scorge un libro: Il numero cinque, scritto dall’anagrammista tedesco Otto Khompl.

Incuriosita Virginia lo prende in mano, sfoglia le prime pagine. La scrittura è complessa, la punteggiatura povera, le poche pause non danno requie alla vista e all’intelletto. La trama affonda nel mistero. Un alveare  di coincidenze in cui il suo destino si intreccia a quello del borgomastro Marino, protagonista del romanzo. Persuasa che il racconto parli di lei,  Virginia lascia che la narrazione la trasporti. Avverte che la sua vita è in pericolo, e con essa le sorti del movimento.

Un alito caldo e mefitico le attraversa le narici, è intorpidita, ha un principio di svenimento.  Squilla il telefono, è il dottor Pizzarotti. Intanto una panda rossa si arresta davanti all’ufficio. Il confine tra romanzo e realtà si fa sempre più labile.

– Virginia, dobbiamo incontrarci!
– D’accordo Federico, sono in ufficio, ti aspetto.

Pochi minuti e suona il citofono.

– Chi è?
– Formaggio ve ne abbisogna, signori’?
– No, grazie!
– Buono mì!
– No, davvero, grazie.

Arriva Pizzarotti. I due setacciano la posta elettronica e le carte del movimento, cercano la prova che assolva Virginia e inchiodi il direttorio.

-Maledizione! Dev’esserci per forza! – Erompe Pizzarotti –
-Ma dove diavolo… Eccola! L’ho trovata!

Rapporto: posta inviata alla 5:55 del 5 agosto 2016, nessun oggetto. «Caro Luigi, a scopo informativo ti scrivo…». E’ la lettera con la quale Virginia Raggi pone al corrente il direttorio della posizione dell’assessore Muraro, indagata  per traffico illecito di rifiuti, abuso d’ufficio, truffa. Ancora non è chiaro chi sapesse cosa e da quanto lo sapesse, ma la vicenda assume contorni più nitidi.

– Federico, cosa facciamo?

Virginia si volta, Pizzarotti non c’è più. Non c’è mai stato. Il sindaco ripiomba nel  suo calvario, ha paura. E poi quel numero che ritorna: la sveglia quotidiana alle cinque, il civico della sua abitazione, i chilometri che la separano dal suo ufficio, il tram numero cinque, i cinque membri del direttorio. Cinque.

E’ notte. Virginia è in preda agli incubi, fatica a prendere sonno, ha appena sognato di assassinare Alfio Marchini. E’ convinta che la colpa sia del libro. Vuole andare a fondo, capire cosa si cela dietro il libro e il suo fantomatico scrittore. Ripete ossessivamente il suo nome: Otto Khompl… Otto Khompl…  Qualcosa non torna. Scende dal letto, apre il libro, lo sfoglia, arriva a pagina 55. Ultimo capitolo: il quinto.

La pagina è bianca. Trova solo un numero di telefono scritto a mano. Lo compone, risponde una voce femminile.

– Hotel Penta buonasera, sono Gigliola, come posso esserle utile?
– Buonasera Gigliola, vorrei prenotare una una camera per domani.
– Mi dispiace, signora, domani siamo al complotto.
– Scusi?!
– Dicevo che domani siamo al completo
– Mi perdoni, avevo capito male. Quando avete la prima disponibilità?
– La prima disponibilità… vediamo… il cinque ottobre. Una singola.
– La camera cinque immagino…
– Mi faccia verificare… Sì,  la cinque. Ma come ha fatto?!
– Fortuna, semplice fortuna.

∗∗∗∗

[Hotel Penta,  5 ottobre 2016]

E’ mattina, Virginia ha appena consegnato il suo documento d’identità all’addetto del ricevimento.

– Prego, signora Raggi, la camera è al quinto piano. Può prendere l’ascensore.

Attraversa il corridoio, raggiunge la stanza, adagia la chiave sul sensore, attende lo scatto ed entra. Ad accoglierla il televisore acceso e un mazzo di rose. Accanto un biglietto piegato in due.

In evidente stato preagonico, poggia la borsa sul letto, si avvicina al tavolo, apre il biglietto:

aaaaaaaaaaaaaaaa

∗ ∗ ∗ ∗

[Virginia Raggi telefona a Matteo Renzi]

– Matteo, non capisco! Cos’è questa storia? È uno scherzo?
– No.
– E allora?
– Un modo carino per ribadire che la mia legislatura va avanti.