Consumata l’ultima frittura al mercato di San Benedetto, culla del neo sardismo polenta e misultin, la regione sardegna, rinnovata nei seggi e nell’armadio, si appresta a battezzare la nuova legislatura.
Respingendo le truppe dell’audace Zedda, cammellato alfiere della Cagliari centripeta e prevaricatrice, del sud contrapposto al nord, dove rigogliose si stratificano le piante della famiglia bryophyta, il popolo sovrano ha scelto Christian Solinas, scandinavo di Capoterra, della cui campagna elettorale si ricorderanno più i silenzi che i proclami.
Con il ministro dell’interno stabilmente in sardegna, con una protesta dei pastori tutta da monetizzare, con una regione che rammentando gli antichi motti rivendica il suo nord, il battagliero Zedda, pur non sfigurando, nulla ha potuto contro l’invasione dei lumbard; troppo forte l’ascendente salviniano in questa fase storica, troppo forte la sua macchina propagandistica, debilitata più dalla scaltrezza di impavidi undicenni smartphonizzati che dalle proposte del partito democratico, il cui primato si spiega più nella fisica quantistica che nella scienza politica.
Per quanto gli antireflusso prescritti dai sostenitori della lista vincente ancora si perpetuino nei commenti, l’elezione sarda non ha tuttavia riservato sorprese. Nonostante i deragliamenti degli exit-poll – che continuano a godere di ottima salute giornalistica – suscitavano interesse non tanto i risultati, banalmenti fedeli al principio (o disturbo) bipolare, quanto le proporzioni del voto e la distribuzione territoriale.
All’ombra della torre, nel paese di Magnon, ha animato il dibattito l’elezione del consigliere Dario Giagoni, che irradiato di misticismo salviniano – e mai desinenza fu più felice – ha conquistato il seggio superando l’oltraggio e l’imbarazzo di intercettazioni comunque rivelatrici di un sostrato di arrivismo e di livore.
E adesso? Ferme tutte le perplessità e i rancori di una campagna elettorale tutto sommato sterile, e con buona pace di chi confondendo il dissenso con il fatto personale ha rincorso l’offesa, trovo masochistico non cogliere la grande opportunità che l’elezione rappresenti per il nostro paese. Al netto della debolezza intellettuale e politica dell’eletto, che avrà modo di migliorarsi nella sede istituzionale, il beneficio, fosse anche per l’interlocuzione privilegiata, è innegabile.
Questo non significa che il potere d’influenza che Dario Giagoni potrà esercitare dai banchi della regione sarà garanzia di prosperità per il paese, i risultati li vedremo poi. Dico solo che, considerando che la lega doveva nominare un rappresentante in gallura, pur con immutate distanze ideologiche e culturali, perché mai a Dario Giagoni avremmo dovuto preferire – sempre in quota leghista – il pescatore di Trinità D’Agultu suggerito dall’ultimo fenomeno del webbe?
Molto dipenderà dall’indirizzo politico e dall’indipendenza della giunta nascente, che potrebbe precocemente annaspare nel mantra del Prima i sardi, che pochi giorni prima erano abruzzesi e domani saranno lucani, con lo squallido abbandono dei temi cavalcati nella settimana del voto. Ne sia sintomo il registro con il quale autorevoli rappresentanti della Lega, poche ore prime prodighi di francescana indulgenza, hanno apostrofato gli atti vandalici dei pastori, benché le violenze fossero già in atto durante la campagna elettorale.
E’ allora che la brama di sposare la causa lucana derubricherà la complessità sarda, come in quel brillante dialogo monicelliano in cui il Marchese del Grillo, debitore per una prestazione d’opera, licenziando l’ebanista Aronne Piperno dice:
«Bella a boiserie, bello l’armadio, belle ‘e cassapanche… bello, bello, bello tutto… bravo… grazie, adesso te ne poi pure anna’».
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