Evoluzione

Nella decisione della corte costituzionale c’è l’essenza dell’incompiutezza italiana, della sua arretratezza culturale e di quel tratto degenerato che rende ai nostri occhi straordinario ciò che negli altri paesi è normale.

Degenerazione inquinata dall’italico retropensiero, naufragato nell’interpretazione di una pronuncia tanto autorevole quanto incompresa. Essa non legalizza il suicidio, come asserisce una squallida vulgata provita, ma statuisce che in presenza di ben definite condizioni, come la capacità di intendere e di volere, la sofferenza fisica e psicologica, l’irreversibilità della patologia, si configurano degli spazi di non punibilità che, nonostante i richiami, il legislatore non ha regolamentato.

Nessuna affinità con la mistificazione compulsiva di enti e associazioni che, deprimendo il diritto all’autodeterminazione del malato, alimentano l’idea di un indistinto diritto al ricorso eutanasico.

Mistificazione che, incoraggiata dall’assioma secondo cui non esiste coglionata che non garantisca una rendita, è ben rappresentata dal manifesto di Fabio, 48 anni.

EE5Q3cyU8AEfTxg

Per fotogenia meglio pubblicare Fabio pulito, pettinato, una bella camicia bianca. Guardando questa foto chi mai penserebbe alla sua morte?

Proviamo allora a immaginarlo nelle condizioni che hanno indotto la corte a pronunciarsi. Fabio non ha la camicia, è nudo, inchiodato al letto, avviluppato tra tubi, aghi e ventose che lo collegano a un macchinario, lo sguardo fisso, incapace di respirare autonomamente, di mangiare, di comunicare. L’infermiere gli ha appena pulito il culo. Sì, Fabio si è cagato addosso.

Ora ve lo chiedo io: e se fosse vostro padre?

Ma come si è arrivati a questa decisione? Intanto per una lacuna del nostro ordinamento, che non contempla la fattispecie per la quale è stato processato Marco Cappato.

La Corte di Assise di Milano ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al suicidio a prescindere dal loro contributo alla determinazione o al rafforzamento del proposito suicidiario, ritenendo tale incriminazione in contrasto e violazione dei principi costituzionali che individuano la ragionevolezza della sanzione penale in funzione dell’offensività della condotta accertata.

In sintesi, un tribunale della repubblica ha investito la Corte Costituzionale perché dubbioso in ordine applicazione di una norma che nel corso del processo è stata contestata. Nella fattispecie, la difesa ha eccepito che Marco Cappato, con la sua condotta, non ha determinato Fabiano Antoniani al suicidio, né ha rafforzato il suo proposito. Rispettando la volontà del malato, lo ha solo messo in condizione di raggiungere la svizzera.

Una nota su Fabio, 48 anni, licenziato. Si è toccato i coglioni e ha detto di andarvene a cagare.

Ora siamo tutti più liberi.


Dotti, medici e insipienti

Ora che anche la famiglia si è rassegnata, della triste storia di Charlie Garde  resteranno solo il dolore, la caparbietà dei genitori e l’ipocrisia di chi  affoga il pianto nel primo aperitivo. Perché, sia chiaro, al vostro senso di afflizione, in tutta onestà, io non ci credo.

Il neurologo della Columbia University, le cui parole a differenza delle nostre non vagano come l’ultimo fiato uscito dal collo del decollato, confermando la diagnosi dei colleghi britannici,  ha posto la parola fine sul caso dichiarando l’irreversibilità della sindrome degenerativa che ha colpito il bambino.

Insomma, dopo l’ultima risonanza magnetica al cervello, il luminare statunitense ha escluso il recupero delle cellule cerebrali distrutte dal processo patologico, la cui gravità vanifica  qualsivoglia esperimento terapeutico.

Il bambino è già morto, a tenerlo in vita sono le macchine, e nessuno, data l’univocità delle perizie, è in condizione di dire se, quanto e da quando stia soffrendo. Nessuno, eccetto i luminari della Internet University, che prescrivono un decotto a base di calendula, idrato di somadril e tanto riposo.

Atteggiamento che vagamente ricorda i catechismi degli antivaccinisti, che nella presunzione di essere al di sopra della medicina e del diritto, già accusano la giustizia britannica di aver sospeso la potestà familiare dei Garde, inaugurando il circo mediatico cattolico, americano,  politico in generale, che speculerà (o perculerà) sulla commozione generale.

Ma se alla chiesa va riconosciuta una coerenza etica sulle tematiche della vita (preferibilmente dalla vita in giù), per gli altri potrebbe essere giunto il tempo di un romantico silenzio; compreso l’ospedale Bambin Gesù, che dichiarandosi disponibile ad accogliere Charlie per garantirgli accoglienza e amore, ha lasciato intendere che l’università  inglese – rivelatasi invece più empatica dei suoi detrattori – con la capacità medica  avesse smarrito la pietà.

Intanto, si parla di storia che ha commosso il mondo.

Quando sento parlare di storia che ha commosso il mondo, giuro perdo la ragione. Sono poche parole, apparentemente inoffensive, preludio di dibattiti dozzinali, propaganda insulsa, annunci di fondazioni dedicate al defunto, comparse televisive, interviste, film. Attenzioni che con precisione matematica neghiamo ai bambini (salvabili) che ogni tre secondi muoiono nel terzo mondo  e dei quali ci ricordiamo solo per colpevolizzare l’inappetenza di un figlio viziato.

Quel bambino, Charlie,  non compirà un anno. E’ crudele dirlo, ma è la sua unica fortuna.

 

L’ultimo tragico Fantozzi

Non so quanto e se la cosa debba inquietarmi; di certo è singolare aver iniziato un libro di Paolo Villaggio, Fantozzi contro tutti, il 3 luglio 2017, mentre radio e televisioni, a mia insaputa, annunciavano la sua morte.

Fantozzi ragionier Ugo, l’italiano, la maschera,  la metafora del tragico spinta al parossismo, la sublimazione di un genio fortunatamente tributatogli da vivo, risparmiando l’indigesta deriva della morte nobilitante, quella che fa di un genio anche chi tale non era.

Aveva ottanquattro anni, era malato da tempo, ma l’ ironia mordente non l’aveva abbandonato. Sono anni, quelli dell’ultimo Villaggio,  ai quali dovremmo guardare con interesse, anni di un villaggio più intellettuale, avvolto in una tunica da santone; ma anche di un provocatore irriverente, come quando si spese in bieche allusioni sulle scelte sessuali dei pastori sardi o quando descrisse le olimpiadi per disabili come un’esaltazione della disgrazia.

Non credeva nell’aldilà, era terrorizzato dalla morte, lo stesso terrore che diceva di aver visto negli occhi di Giovanni Paolo II. Ma non lesinava ironia anche su di essa, lui che con Gasmann si divertiva a comporre canzonatori elogi funebri.

Un corteo in gran stile, organizzato da Filini e il dott. ing Grand Farabutt Pier Matteo Barambani, con in testa la gloriosa bianchina trascinata con stridore di freni dal camion dell’autorimozione veicoli. La salma, con il basco in evidenza, adagiata sul tetto dell’auto. Quell’auto che tra una rapina a mano armata e un forno lanciato dal terzo piano, dai suoi finestrini, ha assistito alla trasformazione della società italiana.

Un corteo che forse è più una gita aziendale, strozzato dall’incedere dolente degli amici, appena distanti dalla moglie Pina, la figlia Mariangela,  la signorina Silvani.

Una sola interruzione lungo il tragitto per il camposanto, davanti alla finestra di casa sua, per una curiosità impellente: «Scusi… chi ha fatto palo?»

Erano le cinque meno un quarto di un mercoledì di luglio e si aspettava con ansia la fine anche di quella maledetta settimana.

 

 

 

 

 

 

 

Il buon senso

L’adagio manzoniano secondo cui il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto per paura del senso comune, sembra pensato per studiare l’ultima aberrazione di casa Zuckerberg: la condivisione dei manifesti funebri.

Consumata la migrazione esistenziale nello spazio dell’internet, che per un gioco di simmetrie invertite rappresenta vite che non viviamo, in cui le più comuni fragilità sono represse a beneficio della vacua ostentazione,  era inevitabile che anche il lutto si congedasse dal mondo terreno.

Inaugurato dall’improntitudine delle condoglianze in bacheca, affidate a delle cazzo di faccine lacrimanti, da qualche tempo ha preso corpo il malvezzo di condividere, oltre alla notizia della morte, l’affissione funebre, generando imbarazzanti equivoci sull’interpretazione dell’apprezzamento.

Escluso che  assolva a una funzione pubblicistica, essendo il nostro paese maestro nella sottile arte del pettegolezzo e della divulgazione, fatico a intercettare (in questa pratica) un’utilità che non sia la ricerca di visibilità.

E’ una liturgia indigesta, volgare, in essa prospera la miseria della retorica, la contaminazione delle componenti nobili del lutto: l’intimità e il contegno. Meglio  abbandonarsi agli sguardi, ai silenzi, ai sussurri, ma non al dolore plateale. Piuttosto, meglio l’irrisione del defunto, come l’istrionico elogio a Formichella ne I nuovi mostri:

Quando io al telefono gli dicevo: «Pronto? Pronto, chi parla?  Pronto, chi è?» 
-E tu gli rispondevi: «stocazzo!»

Io voglio essere ricordato così, come Formichella, dall’altra parte della cornetta.

Naturalmente, non c’è fretta.

 


 

Io sono un egoista

Io sono un egoista.  Di un egoismo inversamente proporzionale al filantropismo cortigiano che prospera quando il dibattito popolare lambisce l’etica, generando quelle aberrazioni per cui, a un certo punto della vita, qualcuno si sente in dovere di decidere  cosa è bene per gli altri.

Il problema, agli occhi di un egoista confesso, è  che quel novero di altri,  persone più o meno dignitoseinclude anche me, che non rammento di aver mai chiesto né intercessioni salvifiche, né ricoveri per l’anima.

Il tema è l’eutanasia, la dolce morte, il congedo dignitoso dalla vita terrena. Troppo dolce forse  per una classe dirigente diabetica, riottosa e bigotta, che rinuncia, non si capisce se per  calcolo elettorale o per timorazione divina, a vestire di civiltà la sua legislazione, tracciando un parallelo surrettizio tra l’eutanasia e l’induzione al suicidio.

Cosa c’è di oltraggioso nell’idea di un’uscita non sofferente dalla vita? Domanda retorica, è vero; ma è altrettanto vero che il difetto legislativo non esclude la possibilità di scelte più tragiche. Quel che è interdetto in Italia, dimostra la cronaca,  è possibile in Svizzera, se hai i soldi; in alternativa  c’è il ricorso ai rimedi tradizionali. Sì, perché – nell’attesa – la gente la vita se la toglie comunque, scegliendo  sempre il metodo peggiore.

Il commento pubblicato da una testata satirica diceva: «l’Italia è quel paese dove se vuoi curarti  muori nell’attesa, ma se vuoi morire ti curano per forza». Se non fosse vero, sarebbe un’ottima battuta.

E’ una questione di libertà, e muove dalla premessa che la vita appartiene all’individuo: non appartiene allo stato, non appartiene a Dio. Libertà, anche di morire. E non se ne parla  abbastanza perché la deriva polemica ha infettato il dibattito.

Posso capire un genitore, un fratello, chi  non si rassegna al pensiero di perdere un caro, anche se quel caro è un corpo mantenuto in vita da un respiratore. Non capisco gli altri, gli estranei, sedicenti associazioni per la vita, gente incapace di essere sincera anche quando chiede «come stai?».  La domanda dei buoni.

E’ bello sentirsi buoni. C’è gente che a furia di ostentare buone azioni si convince della propria bontà. E’ un errore esiziale. Non dobbiamo vergognarci di essere stronzi. E neanche di essere egoisti. Fingere di essere migliori non ci renderà migliori.

Prendiamo un caso emblematico, di quelli che rimettono in discussione i fondamentali della civiltà  moderna: la fame nel mondo. Avete presente il corpo macilento e  gli  occhioni cisposi del bambino africano che le agenzie di comunicazione utilizzano per suscitare la nostra  sensibilità? Lo stesso che probabilmente  ieri sera avete evocato per colpevolizzare i vizi di vostro figlio.

Bene. Secondo voi – fra amici, parenti, conoscenti – quanti sacrificherebbero il loro benessere per qualche centinaio di bambini? E non parlo del messaggino da due euro, dell’acquisto solidale o della partecipazione al convegno sulla penuria di farmaci in Africa, quelli con rinfresco finale. No, parlo di stile di vita.

Bisogna essere onesti: non ce ne frega nulla. Zero. La macchina nuova, la cena in ristorante, l’Iphone, le scarpe firmate quel bambino se lo mangiano, lo divorano. Ecco perché sono un egoista. Ma non lo dico io, lo dicono i miei comportamenti.

L’ostentazione della pietà è un’operazione puramente estetica, per questo trova il compiacente sostegno dell’amico o del commensale di turno. Accanto alla fame nel mondo si potrebbero redigere elenchi sterminati: i diritti delle donne, le guerre, i terremoti, le epidemie, gli attentati terroristici, le violenza in famiglia,  l’eutanasia.

Fin dagli esordi  la scuola ci insegna a essere generosi, solidali, a coltivare la virtù,  ma sono scenari che mutano con il suono della campanella. I bambini non sono le anime candide che rappresentiamo, niente affatto. I bambini sono dei bastardi, sono l’esatta proiezione di quel che diventeranno e che noi già siamo. Degli egoisti. Ma hanno delle attenuanti.

Esiste un momento di  equilibrio nella vita dei bambini, ma si interrompe in presenza di tre fattori: scambio di figurine alle elementari, denaro,  traini alternativi per buoi. Dalla gestione di queste fasi dipende l’intero processo di maturazione.

Io, per esempio, riconduco le storture della mia esistenza al primo fattore, alle figurine, a quel pletorico accumulo di doppioni di Wilkins. Sono un’ ipocrita, è vero, un mostro, un essere turpe, ma ve lo giuro, non è colpa mia, è tutta colpa di Wilkins


Testamento Biologico

Santa Teresa Gallura, 8 marzo 2017

Il sottoscritto Alessandro Muntoni, nato a Oristano il giorno 11 dicembre 1976, nella pienezza delle proprie facoltà fisiche e mentali, come già espresso addì 27 febbraio 2009, dispone quanto segue:

Qualora fossi affetto:
da una malattia allo stadio terminale,
da una malattia o una lesione traumatica cerebrale invalidante e irreversibile,
da una malattia implicante l’uso permanente di macchine o altri sistemi artificiali e tale da impedirmi una normale vita di relazione,
manifesto la volontà di interrompere qualsivoglia trattamento terapeutico.

Nelle predette ipotesi:
qualora la sofferenza dovesse raggiungere un’irragionevole soglia di gravità, dispongo che si provveda ad opportuno trattamento analgesico, pur consapevole che possa affrettare la fine della mia esistenza;
qualora non fossi più in grado di assumere cibo o bevande, rifiuto di essere sottoposto a idratazione o alimentazione artificiale;
qualora fossi anche affetto da malattie intercorrenti (come infezioni respiratorie e urinarie, emorragie, disturbi cardiaci e renali) che potrebbero abbreviare la mia vita, rifiuto qualsiasi trattamento terapeutico attivo, in particolare antibiotici, trasfusioni, rianimazione cardiopolmonare, emodialisi.

Sempre nelle predette ipotesi:
Rifiuto qualsiasi forma di continuazione dell’esistenza dipendente da macchine.

Detto inoltre le seguenti disposizioni:
non richiedo alcuna assistenza religiosa;
il mio corpo può essere utilizzato per scopi scientifici e didattici;
il mio corpo può essere donato per trapianti, ma non a favore di Wilkins (scherzo, anche per lui).

 

Alessandro Muntoni

Cinquanta sfumature di Tarcisio

[Colloquio con Tarcisio Pani]

Tarcisio mi dà appuntamento nei pressi delle cantine Argiolas di Serdiana, alle tre del mattino. Dice che al mattino il cervello è più reattivo; ma si presenta a mezzogiorno e mezzo, ancora in pigiama. Il sole è caldo, il cielo azzurro, quando arriva lui. Alle tre, quando sono arrivato io, c’era buio, faceva freddo e non s’intravedeva un’anima. La massima autorità del governo serdianese, 60 anni, entra, sorride, scorreggia e si accomoda su una poltrona, circondato dalle donne del paese, che sublimano il suo ego dispensandogli fiori e frutta traboccanti da una cornucopia sottratta ai rivali parteollesi.

Tarcisio Pani, serdianese, nato il 14 aprile del 1954 a Siurgus Donigala da babbo Salvatore, contadino, e mamma Maria Teresa, casalinga. A sei anni è in collegio e pensa di farsi prete, ma a otto incontra satana e ne rimane affascinato. A nove diventa segretario della federazione satanica giovanile della trexenta. Frequenta medie e ginnasio in seminario, maturità classica al Siotto. A diciassette anni conosce Angela. Nel ’79 la sposa andando in comune a cavallo di un asino e con due testimoni trovati in piazza. Ricattato moralmente, lo stesso anno, si sposa anche in chiesa. Ama la cucina sarda, adora Tagore e Salgari. Occhi azzurri tra l’ammiccante e il tagliente; sa essere mellifluo e insultante, gli strumenti oratori li conosce tutti. Ha sempre oscillato, dicono, tra la moderazione vellutata e l’oltranzismo violento. Ha molti amici e ignora i nemici; di carattere non è semplice, duro fino all’estremo ma anche timido; spontaneo e chiuso; aggressivo e ingenuo; brusco e cordiale. Alle accuse risponde ragionando, agli insulti querelando. Non è tipo da porgere l’altra guancia.

[D] Buongiorno Tarcisio, grazie per aver accettato il mio invito.
[R] Buongiorno, grazie a te.

[D] Da pochi giorni abbiamo un nuovo presidente della repubblica. Di Mattarella un autore di spinoza.it ha detto: “a confronto, Napolitano era Balotelli”. Le piace Mattarella?
[R] Decisamente no! Confesso che ignoravo chi fosse, mi sono informato su Wikipedia. Un gran pezzo di mattarellum!

[D] La recrudescenza del terrorismo mediorientale ha monopolizzato le prime pagine dei giornali. Rivolgendomi al dipendente Inail, chiedo: anche il ruolo del prigioniero politico è un infortunio sul lavoro?
[R] Solo se viene condannato ai lavori forzati.

[D] Ha tagliato più teste l’Isis o l’Inps?
[R] Senza alcun dubbio l’Inps.

[D] Quanto è importante la comunicazione nel terrorismo moderno?
[R] Quanto la non comunicazione delle tante guerra in atto.

[D] Oltre che un raffinato scrittore e un vorace turista del social network, Tarcisio Pani è un poeta profondo e sensibile. A quale sua poesia si sente più legato?
[R] La mia preferita, e quella che descrive con maggiore intensità un’emozione vissuta, è Bagno di luna.

[D]Ce la recita?
R] Non la ricordo a memoria ma posso fare copia-incolla: bagno di luna.

Cammino avvolto da soffici pensieri
Sui miei sandali è già sabbia di ieri,
è la luna che mi porge un dolce invito:
Abbandona questo giorno ormai finito
E lascia che ti avvolga la mia scia.
Dei tuoi pensieri sia pure quel che sia!
 
Ma che splendido mare questa notte!
E che cielo! E le stelle, un po’ mignotte,
Ci si buttano dentro a capofitto.
Tantissime ne seguo con il dito
Che si adagiano leggere come foglie
Sullo specchio del mare che le accoglie.
 
E lì danzano, danzano, danzano,
ormai non ho pensieri che mi avanzano
né vestiti ad opprimermi la pelle,
scivolo già silenzioso tra le stelle,
solo, lentamente, dolcemente nuoto.
O forse volo, librandomi nel vuoto?
 
V’ingoierò tutte, ne rimarrà nessuna
In questo tiepido, mio, bagno di luna.
[agosto 1998]
[D] Che valore attribuisce alla solitudine?
[R] Un tempo ne avevo terrore ed ero ingordo di amicizie, ora ne sto apprezzando il valore perché mi aiuta a capirmi meglio.

[D] Lei si sente solo?
[R] Assolutamente no!

[D] Diceva Longanesi: “l’amore è l’attesa di una gioia che quando arriva annoia”. Lei è innamorato?
[R] Sono eternamente innamorato.

[D] Quanto contano le cadute nella vita di una persona?
[R] Molto. Con le cadute si impara a bestemmiare.

[D] E’caduto molte volte? E’ più arruttu o più arrettu?
[R] Arruttidus liberatori.

[D] Lei, Tarcisio, ha sempre criticato l’ipocrisia e il malcostume della chiesa. Come si pone oggi rispetto a Papa Francesco e al modo in cui il pontefice ha cambiato la percezione del cristianesimo?
[R] Non può avere credibilità uno che sostiene di essere Dio in terra.

[D]Le piacerebbe incontrarlo?
[R] No. Non ho proprio un cazzo da dirgli.

[D] Se dovesse diventare papa, che nome sceglierebbe?
[R] Per rompere gli schemi mi farei chiamare Luxuria I.

[D] Ha mai sentito la vocazione o praticato la liturgia?
[R] Avevo dieci anni quando mi si presentò l’Arcangelo Gabriele e mi propose di entrare in Seminario. Mi tennero prigioniero per cinque lunghi anni drogandomi di liturgie. Poi venne a trovarmi Satana e mi propose la figa. La scelta fu molto facile.

[D] Eugenio Scalfari sostiene di non essere anticlericale, ma di diventarlo quando incontra un clericale. Lei crede in Dio?
[R] Mi è più facile credere in Pinocchio.

[D] Che giudizio ha della chiesa?
[R] Una masnada di lestofanti, ipocriti, bugiardi…

[D] Le crea disagio condividere il nome con l’arcivescovo Bertone, il cui nome figura nel ricorso presentato alla corte penale internazionale dall’associazione vittime della pedofilia?
[R] Io pensavo fosse un carrozziere. Ti svelerò un segreto, mi hanno chiamato così perché ho un cugino in seconda, se non addirittura in folle, che si chiama Tarcisio. Pensavano così di segnarmi il destino. Fecero i conti senza l’hostess.

[D] Hai paura della morte?
[R] Ho paura del dolore.

[D] Ci pensi mai?
Ci penso certo, ma faccio parte “del gregge di Epicuro”, come con disprezzo si esprime al riguardo la Chiesa. Se ci sono io non ci può essere lei e viceversa. Non ha senso preoccuparsene.

[D] La locuzione cartesiana cogito ergo sum, esprime la certezza che l’uomo ha di se stesso in quanto soggetto pensante. Oggi questa libertà di pensiero, non solo politicamente, è sempre più delegata. La società moderna è passivamente transitata da cogito ergo sum, sede autonoma del pensiero, a ci pensa Cannas. Tra Cartesio e Cannas, Tarcisio come si colloca?
[R] IO? Coito ergo sum. E’ il coito il motore dell’universo e non può essere delegato.

[D] “Conosci Oggy e i maledetti scarafaggi? Sono dei delinquenti ma almeno sono simpatici.” Sai chi ha scritto queste parole?
[R] Le ha scritte il mio doppio su facebook, per alleviare le sofferenze di un’amica virtuale (Giulia Muglia, n.d.r.), costretta a subire quella maiala di Peppa Pig.

[D] Chi è Peppa Pig?
[R] Peppa la maiala, non vedo l’ora che diventi prosciutto.

[D] Perché la conosce?
[R] In verità non la conosco proprio, ma mi sta sulle palle un maiale con gli occhiali.

[D] Viaggia spesso? Esiste una città al mondo in cui tornerebbe volentieri?
[R] Sono l’anti-odissseo, viaggio pochissimo per pigrizia… Sono stato due volte a Parigi.

[D] Lei è molto presente sui social network, e molti la conoscono pur non avendola mai incontrata: come immagina la sua vita senza facebook?
[R ]Scusami un attimo, mi sono arrivati un paio di post.

[D] A proposito di amicizie nate in rete, chi era Mario Neuronio Berni? Che ricordo ha di lui?
[D] Mario l’ho conosciuto proprio su facebook, mi hanno affascinato sia la sua grande ironia, sia la sensibilità che faceva trasparire nei suoi “status” e commenti. Intelligente, ironico, dissacrante. Una persona vera. Mi manca.

[D] Prima di conoscermi avrebbe mai immaginato che un giorno l’avrei intervistata?
[R] A proposito, uscirà sul Times?

[D] Che giudizio dà a quest’intervista?
[R] Un altro incontro che mi arricchisce. Però sei bravo, mi sono messo a nudo senza timore.

[D] La metterà a curriculum?
[R] La custodirò gelosamente.

[D] Per essersi sottoposto a questo colloquio percepirà un simbolico dollaro d’argento pescato dal fondo del sand creek. Come pensa di investirlo?
[R ] Prima farò i miei bisogni ed il resto lo donerò ai poveri.

Grazie, Tarcisio.

[mentre risponde alle domande, Tarcisio non sa come e con quale immagine verrà introdotta l’intervista]

Auguri a te e famiglia

Sapete cos’hanno in comune Mango e Joe cocker, oltre alla professione e alla recente scomparsa? Apparentemente nulla, avendo scelto forme musicali differenti. Ma qualcosa, se ci pensate, c’è. A entrambi, così come a tanti altri anonimi cittadini, qualcuno un anno fa ha augurato buon anno.

Non vorrei con questo accelerare la mania depressiva bipolare che puntualmente ospitate in corrispondenza delle feste, ma piuttosto creare una breccia nella superficialità di certi auguri. In fondo, non è indispensabile chiamarsi Nostradamus o Cassandra per profetizzare che anche il duemilaquindici, come tutti gli anni che ci hanno preceduti e quelli che seguiranno, non sarà universalmente positivo; invero sarà esaltante per alcuni, drammatico per altri. Un fatto naturale che se non si verificasse, corromperebbe quella franchigia della sopravvivenza perpetua, garantita solo ai cinesi. Non capisco perché si continui a venerare Gesù, che muore ogni anno ma muore, e non i cinesi, che non muoiono mai e, soprattutto, pagano in contanti. Un argomento che ho recentemente sviluppato nel corso di un convegno intitolato “Non capisco perché si continui a venerare Gesù, che muore ogni anno ma muore, e non i cinesi, che non muoiono mai e, soprattutto, pagano in contanti.

Ma i casi di Mango e Joe Cocker, per suffragare la tesi, non sono isolati. Nell’ordine, ne sanno qualcosa: Enrico Letta, gli abitanti della Crimea, il volo Malaysia airlines, le vittime dell’Isis, i minori trucidati a Peshawar, gli imbarcati nel volo Indonesia Air Asia, i marinai a bordo dei due mercantili entrati in collisione a largo di Ravenna. Tante persone benedette dall’augurio di un anno migliore di quello trascorso, ma miseramente inghiottite in una dantesca Tim cup della sfiga, i cui gironi dovranno essere ridefiniti dopo lo scandalo emerso nel corso dell’inchiesta inferno capitale. Insomma, molte persone alle quali abbiamo augurato una miglior vita sulla terra, sono volate lassù, tra le stelle, da dove ci proteggono, ci osservano e ci fotografano. E’ il caso di Samanta Cristoforetti, l’astronauta testimone – quella notte – degli amori ancillari che si stavano consumando in una sardegna buia e pudìca.

Nell’imminente rituale profilassi del “…se non ci vediamo, tanti auguri a te e famiglia”, bagnata dai canti e dal vino, cari lettori, vi riservo un solo augurio: guidate con prudenza e buonanotte!